Zeev Sternhell, lo storico che ha fatto le domande scomode al nostro presente

21 Giugno 2020

Quando la sera del 24 settembre 2008, Zeev Sternhell riceve un pacco-bomba nella sua bella casa di Gerusalemme, ho pensato che quella scena non era sorprendente. Forse lo era nel panorama culturale europeo perché l’idea che colpire il fronte politico avverso significa prima di tutto colpire le idee, ci sembrava, almeno allora, appartenere a un segmento di storia del passato. Comunque, non essere parte dell’agire politico di quel tempo.

Quella scena a me sembrava possibile invece in un contesto segnato fortemente dal conflitto ideologico e da una contrapposizione fortemente carica di simboli.  In quel fronte Zeev Sternhell era un simbolo e anche la sua scomparsa, ora, è oltremodo simbolica. Avviene in un forte momento di profondo conflitto politico interno, senza che sia possibile individuare un unto “mediano” né di sintesi né di compromesso. Soprattutto avviene senza che esista nei fatti una forza politica capace di ereditarne i contenuti culturali. Semplicemente la realtà israeliana di oggi indica l’eclissi di una sinistra politica e forse proprio per questo la sua scomparsa è significativa, perché obbliga (a chi abbia davvero voglia di farsi carico di domande tanto imbarazzanti, quanto ineludibili) a fare, senza sconti, un bilancio del Novecento.

Di quel secolo Sternhell è per molti aspetti non solo un intellettuale di testimonianza, ma anche una voce essenziale per comprendere il confronto irreducibile che lo ha attraversato e che non ha mai dato luogo a una sintesi.

Con la morte di Zeev Sternhell avvenuta oggi, scompare una voce culturale di un “anima politica” della società culturale e politica di Israele.

Ma non scompare un intellettuale riconosciuto come grande voce critica del paese. Quella immagine, che pure ha mosso due anni fa anche una parte consistente della destra politica israeliana rispetto ad Amoz Oz nel giorno della sua morte, non si ripeterà nel caso di Zeev Sternhell.

Non c’è in questo caso incoerenza. Per certi aspetti la freddezza intorno alla morte di Sternhell testimonia di una cosa che tutti sappiamo, ma che ci è difficile ammettere: la letteratura, anche quando si carica di intervento civile, riesce a trovare le parole per rompere gli steccati e a costringere anche chi si oppone irreducibilmente allo scenario che fa da sfondo a quella scrittura, a misurarsi con quelle parole, di prenderle in carica – anche solo per replicare – a ciò che quelle parole muovono ,che significa quei sentimenti e quelle emozioni. Con la saggistica, in primis con la storiografia, questo processo non può avvenire. Perché ciò che la scrittura storica porta sul tavolo e obbliga a misurare è la distinzione tra concetti, significati, parole.

Di questa missione (o forse, più precisamente di questa missione pubblica) dello storico, Zeev Sternhell era estremamente consapevole. E non a caso tutta la sua scrittura storiografica si è sempre mossa in estrema solitudine, con pochissime testimonianze di condivisione, anche dentro la parte politica in cui pure dice di riconoscersi.

Quella dimensione era venuta fuori in forma evidente intorno alla svolta di fine secolo.

Con la parabola politica che si inaugura con la eclisse del processo di pace (non solo con la morte di Rabin, nel novembre 1995, ma soprattutto con il processo che si avvia con la seconda intifada (settembre 2001) Sternhell aveva fatto i conti pubblici più di dieci anni fa. Allora Sternhell (anche nei giorni del ritiro da Gaza nell’estate 2005, come ricorda qui Jacopo Tondelli) matura la convinzione che il processo non sia più analizzabile e risolvibile con una “mossa politica”.  Ciò che va preso in carica è un profilo di riflessione che in cui al centro sta la categoria di “antilluminismo”. Una categoria che lo porta a ritenere che la trasformazione politica, culturale, emozionale, delle destre di casa sua, non è solo la conseguenza di una condizione di guerra non risolta  (e dunque che una sistemazione territoriale sia di per sé in grado di ricomporre un quadro canonico di conflitto destra/sinistra quale l’abbiamo conosciuto nel corso del Novecento) ma è soprattutto la conseguenza di un processo di mutazione e che quel processo di mutazione si tratti di analizzare.

In breve, Sternhell ritiene che la retorica politica, la simbologia, le parole, in breve lo stile politico del movimento dell’estrema destra israeliana, ha avuto e svolto questa funzione successivamente alla “guerra dei sei giorni”. Sa perfettamente che per documentare quella trasformazione occorre rinnovare profondamente l’indagine storica e dotarsi anche di un bagaglio documentario estremamente articolato che in un qualche modo riecheggia una preoccupazione propria dell’ultimo Scholem (e che Scholem consegna in una fondamentale intervista a David Biale nell’agosto 1980 sulla “New York Review of Books”) : ovvero la convinzione che il problema nel conflitto culturale e politico interno al mondo ebraico  nella storia sia conseguenza dell’ascesa di un messianesimo politico, e che quell’ascesa e quella presenza, comunque l’azione determinante di ciò che suscita la pulsione messianica, sia tornato a essere una parte essenziale nella crisi politica di terza generazione della esperienza sionista.

Un movimento nazionale, il cui obiettivo è una rivoluzione culturale, morale e politica e i cui valori sono particolaristici, è in grado di coesistere con i valori universali del socialismo? Il nazionalismo ebraico, ovvero il sionismo, a quale matrice culturale dell’idea di nazione si richiama: a quella illuministico-giacobina che si fonda sul principio di cittadinanza, o a quella romantico-politica herderiana che ha il suo fondamento nel concetto di Volk?

Sono le due domande da cui parte Sternhell riflette e propone di di riflettere con il suo Nascita di Israele, e a cui da due risposte secche.

Alla prima risponde così: la coesistenza tra socialismo e nazionalismo è un prodotto alchemico instabile. In ogni caso produce un equilibrio che non può durare all’infinito. Nel caso dell’esperienza storica sionista, la sua agenzia fondamentale – il laburismo – attraverso il socialismo del lavoro, solo apparentemente ha scelto il primo elemento del binomio, in realtà lo ha subordinato costantemente al secondo fino ad annullarlo.

Alla seconda la risposta è la seguente: il principio della nazione adottato dal sionismo è quello di matrice herderiana. In questo caso l’ipotesi che si afferma non è solo quella di una visione nazionalistica del socialismo, ma anche quella di una società politica che tende ad espellere i conflitti interni alla comunità politica che vuol fondare.

L’indagine di Sternhell si articola in due percorsi: da una parte l’analisi delle culture politiche che fondano il profilo del sionismo del lavoro; dall’altra l’indagine sulla famiglia di appartenenza e di riconoscimento di questa sintesi, rappresentata dall’azione politica di Ben Gurion, nell’ambito della galassia socialdemocratica europea tra anni ‘10 e anni ’30.

Per Sternhell il paradigma politico culturale di Israele non si rivela improvvisamente nel corso degli anni ‘80 con la crisi dell’area labour e quella della destra nazionalista e l’emergere delle agenzie politiche del fondamentalismo e del neotradizionalismo religioso.

Egli infatti ritiene che la crisi delle élite politiche nazionali nel corso dell’ultimo ventennio del Novecento in Israele, non sia che il lento consumarsi di una generazione politica che ha il suo processo formativo nella Palestina mandataria degli anni ‘20 e la sua matrice d’origine nella cultura populista russa di cui la generazione di “padri fondatori” da Ben Gurion a Ben Zvi, da Katzenelson a Arlosoroff, è espressione organica e fedele.

Una generazione che intende il socialismo come cultura organicistica e che sceglie come punto di riferimento teorico e politico la figura di De Man (una figura politica e culturale cui Sternhell ha dedicato pagine intense sia nel suo Né destra, né sinistra, che in Nascita dell’ideologia fascista).

De Man per tutti gli anni ‘20 e ‘30 costituisce di fatto il referente teorico a cui guarda Katzenelson, l’ideologo del laburismo israeliano e il vero pedagogo politico del movimento operaio e socialista ebraico di Palestina. Katzenelson da De Man riprenderà molte suggestioni: dal tema del rapporto tra Kultur e Zivilisation (che De Man mutua dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler), a quello della gioia del lavoro, dal culto del lavoro produttivo al tema della produttivizzazione dei ceti medi, fino al planismo e alla critica al capitale bancario come sintomo di parassitismo economico.

Il distacco da De Man avverrà con il profilarsi all’orizzonte del suo avvicinamento alle correnti dell’estrema destra europea e poi con il suo collaborazionismo all’indomani del crollo del Belgio nel maggio 1940. Ma ciò si verifica senza traumi, sostiene Sternhell, in quanto non si produce revisione del modello ideologico-politico. Ciò è possibile, secondo Sternhell, perché il recupero dell’ideologia lavorista e comunitarista del populismo originario espresso dalla figura di Gordon, ispiratore della cultura agrarista del primo modello insediativo di colonia agraria, favorisce il mantenimento di un’ideologia che a questo punto è decisamente orientata in senso nazionalistico e solo lessicalmente caratterizzata da un’impalcatura di tipo socialistico.

Nascita di Israele è un libro che ha una lunga genesi e che, soprattutto, si origina da una profonda inquietudine. Non è il risultato di un’improvvisa illuminazione o di una delusione ideologica. Sternhell dalla fine degli anni ‘80 ha avanzato più volte l’idea che la realtà israeliana andasse valutata nelle sue componenti ideologico-politiche di partenza e che in quella matrice risiedesse una delle cause, se non la vera causa delle difficoltà politiche e culturali della società politica israeliana odierna.

Ma poi quello sguardo a quel laboratorio ha voluto dire anche guardare con attenzione rinnovata alla crisi della democrazia come fase politica non limitata e non limitabile all’esperienza storica dello Stato di Israele. Ovvero, il laboratorio Israele come possibile profilo del percorso dell’esperienza politica delle democrazie occidentali (a partire proprio dall’eclisse delle sinistre).

In altre parole, a partire dalla fine del Novecento Sternhell si è persuaso che quel processo non rappresenti un percorso isolato e specifico della realtà israeliana, ma sia parte della trasformazione della crisi delle forme della politica nel passaggio tra XX e XXI secolo e che quella crisi riguardi soprattutto le esperienze democratiche e lo «stato incerto di salute» delle culture socialiste e liberali.

Un processo che a suo avviso trasforma la natura dello Stato e della sua cultura politica che non è nuovo nella storia contemporanea, e che ha la sua espressione più sviluppata nelle vicende francesi del ‘900.

Riguarda la lunga metamorfosi di quei movimenti nazionalistici, prima aventi un carattere di élite”, ma poi sempre più diffusi, organizzati sia come un partito politico di massa, sia praticanti la violenza. Movimenti in cui si mischiano il culto della violenza e la percezione costante della possibile decadenza della nazione, in conseguenza del suo venire meno rispetto ali suoi presunti tratti politico-culturali costituenti. Una storia politica che è stata al centro dell’attività di studioso delle idee e dei movimenti sociali di Sternhell in cui la destra, a differenza di quella tradizionale si trasforma in “rivoluzionaria, acquista altre caratteristiche e la cui cultura politica, insieme al nazionalismo, è l’anti-illuminismo.

Un profilo che a suo avviso fa del laboratorio politico, sociale e culturale in Israele appunto un laboratorio di quelle trasformazioni e metamorfosi della democrazia occidentale di cui Israele si sente parte, e che Sternhell non ha alcuna difficoltà a riconoscere. Anzi quella appartenenza è per lui essenziale per indagare le trasformazioni, più spesso le metamorfosi che le democrazie occidentali non riconoscono a se stesse. E che spesso si ostinano a non riconoscere.

TAG: Zeev Sternhell
CAT: Storia

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