Biennale, l’urlo dei rifugiati: “Siamo tutti Ulisse”

30 Giugno 2022

Tutti siamo Ulisse. È iniziata così la trentesima edizione di Biennale Teatro diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte. Una dichiarazione dalla parte dei rifugiati di tutto il mondo. Un atto in linea con le scelte non scontate di quella che è la rassegna teatrale di respiro internazionale più importante d’Italia. Lo slogan è di una teatrante engagè, la brasiliana Christiane Jatahy, premiata con il Leone d’oro e a cui è andato l’onere di aprire il programma con la sua originale rilettura dell’ Odissea, “The Lingerin Now“. Dichiarazione che sta dentro la storia e l’arte di questa donna dai lineamenti delicati, occhi nocciola, un sorriso dolce e contagioso. Messaggio forte per una che si occupa di “polis” come lei stessa ricorda, durante l’incalzante intervista fattale dal critico Andrea Porcheddu, dentro la scenografica cornice della Sala delle Colonne di Palazzo Giustiniani, gremita di giornalisti, teatranti e autorità, tra cui il ministro della Pubblica Istruzione Patrizio Bianchi. Un’ora di botta e risposte che ha confermato l’attitudine artistica di questa teatrante, un po’ cineasta, un po’ pure nei panni di leader illuminata che si batte per i diritti. Scelta difficile e non proprio scontata per chi vive in Brasile sotto il regime di un autocrate come Bolsonaro. Jatahy è ispirata quando parla del suo lavoro (anche se, ovviamente non svela tutto del suo modus operandi). Racconta del suo mescolare tecniche e passioni, mettendo l’accento sul bisogno di osservare con attenzione il mondo per poi restituirlo in quadri di letteratura agìta, facendo capire quanto poi, di tutto quello che osserva, c’è sempre qualcosa che le resta addosso come fosse una seconda pelle. Tutto ciò ha fatto di lei un’artista originale.

Un momento dello spettacolo “The Lingerie Now” di Christiane Jatahy premiata con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia (Foto Andrea Avezzù)

 

Teatrante cresciuta con i classici, nel cinema ama Cassavetes, ma anche Fellini. E come non potrebbe per una certa tendenza a costruire saghe unendo fiction e realtà. Nelle sue opere, come quella mostrata in Laguna, “The Lingerin Now” (titolo originale : “O Agora que demora) con leggerezza apparente costruisce in modo colto e popolare allo stesso tempo, stando attenta nell’innervare il dramma di saudade e politica, nel senso di sguardo civile e impegno.Così con efficacia recita l’incipit della motivazione del premio veneziano: “Impietosa e acuta osservatrice della violenta crudeltà del nostro mondo, l’autrice e regista brasiliana potenzia un linguaggio originale interstiziale che unisce la forza radicale della sua dimensione poetica al contrappunto di un mordace pensiero politico, sempre attraversato da un intrepido spirito di ricerca tra presente e passato”.

Jatahy infatti non ha paura di prendere posizione anche nel suo Paese per difendere le tribù dell’Amazzonia perseguitate e decimate, e ora a rischio di soccombere per la deforestazione che a ritmi infernali aumenta il terreno dei pascoli nutrendo la famelica industria del legname. Tribù che sono poi le più attendibili antenne di come il Pianeta, in virtù della crisi climatica, stia avviandosi verso una possibile catastrofe. D’altra parte le migrazioni ne sono anche una diretta testimonianza. Nel lavoro di Jatahy non c’è rielaborazione e pensiero filosofico alto, ricerca asettica delle cause o indicazine per soluzioni, ma una narrazione che accompagna i corpi e le ragioni di mille e mille uomini costretti a spostarsi per cercare lavoro o fuggire dalle guerre.

Un’attrice in scena nello spettacolo “The Lingerie Now” di Christiane Jatahy in scena alla Biennale (Foto Andrea Avezzù)

Oppure, come il popolo palestinese essere esuli in patria. Jatahy offre lo spazio di racconto alle persone che hanno vissuto e vivono in prima persona il dramma della separazione. Sono anche e soprattutto attori o attrici incontrati in campi profughi dove Jatahy con la sua troupe ha filmato le persone nella vita quotidiana e in scena, raccontando a tranches le traversie di Odisseo alla ricerca, come tutti, della propria Itaca. Immagini girate in Palestina appunto, ma anche in Libano, Siria, Sud Africa e Ammazonia. Queste riemergono nel grande schermo assieme ad altre riprese effettuate in sala tra il pubblico che assiste. E in platea, come i protagonisti di “Una Rosa Purpurea del Cairo” di Woody Allen, riecco emergere alcuni degli stessi attori e musicisti mescolati qua e là tra il pubblico. Yara, rifugiata siriana, è l’esempio forse più illuminante. La giovane attrice fuggiuta dalla guerra nel suo Paese, diventa sullo schermo Circe che dialoga con Odisseo – interpretato sul filmato da un bravissimo attore siriano, Omar al Sbasi – che vuole salvare i suoi uomini e partire. Il racconto continua dal vivo con Yara che alzandosi da una poltrona in mezzo agli spettatori continua a raccontare il suo rientro inpatria e la sua incarcerazione mentre il cameramen la inquadra nuovamente e il volto ricompare sullo schermo. Così si crea uno spazio” altro” in cui i diversi piani si incontrano e si intersecano conoscendo momenti di total happening.

Un musicista spunta tra il pubblico e inizia a suonare in “The Lingerie Now” (Foto Andrea Avezzù)

Il suono di un violino, gli accordi di una chitarra ed è la stessa Yara a invitare il pubblico a danzare con gli attori, o battere ritmicamente il polsocon le dita per significare la pioggia che cade. “O Agora” parte così dallo schermo ricambolando in scena dal vivo in un atto di teatralità unico, avvolgente e coinvolgente. Ultimo personalissimo atto dell’opera le immagini della stessa Jatany che in Amazzonia parla con gli indios Kayapò a cui racconta come, quando fosse piccola d’età, suo nonno, fuggito dal Portogallo del dittatore Salazar fosse tra le persone vittime di un incidente aereo in Amazzonia. I suoi resti non furono mai ritrovati e Jatanay (che nel frattempo perse giovanissima il proprio padre vittima delle repressioni della dittatura brasiliana) immaginò che il nonno si fosse salvato decidendo di vivere con gli indios. Jatahy dialoga con gli indios e, in uno dei momenti più emozionanti dello spettacolo, riflette su come probabilmente questi ultimi abitanti in quello che è ancora sempre più ridotto, il polmone di verde del Pianeta, diventeranno probabilmente i prossimi rifugiati. A meno che…

La regista brasiliana Christiane Jatahy parla con sul pubblico durante il suo spettacolo (foto Andrea Avezzù)

“The Lingerin Now” è un’opera coinvolgente, un documentario dai toni epici in cui il dramma classico di Omero viene declinato in tante storie. Una bella impresa in cui si tenta di aprire nuove strade anche nella drammaturgia con il continuo ibridare di mezzi e strumenti. Jatahy è molta attenta al risultato globale e segue direttamente, assieme a un regista del video, i cut up come l’immissione di immagini in diretta per la successiva saldatura con i corpi in scena. Operazione complessa che talvolta ha il limite di“passare” un po’ bruscamente da una scena all’altra come se si fosse dentro un blob televisivo. Le immagini girate sono comunque funzionali alla drammaturgia stessa dell’opera e sono un forte coadiuvante della messa in scena. Difficile parlare di rapporto cinema-teatro in senso stretto. Quando, raramente, scatta il momento “cinema” questo avviene perchè il cameramen seguendo il flusso delle immagini e del movimento si trova con l’obiettivo nel preciso momento in cui questo accade. Vedi gli sguardi dei bambini o certi preziosi attimi colti filmando la gente comune. Attimi che fanno pensare alla grande lezione del cineasta antropologo francese Jean Rouch, tra i più grandi al mondo, inventore del “cinema en direct”. Per spiegare meglio quel magic moment che poteva accadere a un filmaker Jean Rouch ricorreva alla metafora del jazz. “Quando il regista mette in scena la realtà”, ha spiegato, “nell’immaginare le sue inquadrature, i suoi movimenti, i suoi tempi di ripresa, fa delle scelte soggettive la cui essenza è la sua ispirazione. Il capolavoro si realizza quando quest’ultimo è al centro dell’ispirazione collettiva, “ma è così difficile, richiede una tale armonia, che posso immaginarla solo in quei momenti eccezionali di una jam session tra il pianoforte di Duke Ellington e la tromba di Louis Armstrong” (Rouch 1981: 31,, in “Jean Rouch, presque un homme siecle” di Jean Paul Colleyn, dalla rivista “L’Homme”, ).“Musique et anthropologie” n.171-172, pag. 537-542, 2004).

Il pubblico di “The Lingerie Now” si abbandona al ballo durante lo spettacolo (Foto di Andrea Avezzù)

TAG: Biennale, Bolsonaro, brasile, Cassavettes, fellini, Gianni Forte, Jean Rouch, Omero, Palestina, Stefano Ricci, Sudafrica, venezia
CAT: Teatro

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