Da Genova: l’attore e la questione etica

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19 Novembre 2018

C’è una frase che mi risuona in testa da qualche tempo. È di Nando Taviani, uno dei grandi storici del teatro italiani. Parlando di Eugenio Barba e Jerzy Grotowski, Taviani dice più o meno: «La rivendicazione di una nuova etica dell’attore è sempre stata il motore delle rivoluzioni teatrali: liberare l’attore dalla sottomissione al pubblico, dalle convenzioni e dalle convenienze delle mode o del mercato del teatro. (È) uno dei problemi essenziali del teatro moderno: la cultura dell’attore. “Cultura” significa la possibilità di ricevere e usare un patrimonio del passato in modo da trasformarlo. Il che vuol dire essere capace di costruire, aggiungere, senza dover sempre ricominciare da zero».

Quanti temi, quanti spunti ci sono in questa frase? Quanto ne potremmo parlare, non solo tra noi “addetti ai lavori”?

Innanzi tutto, vale la pena citarla per quel che riguarda “l’etica dell’attore”. Che etica propone oggi il nostro teatro (o il cinema, o la tv)? Dobbiamo sempre interrogarci su dove e come si colloca, eticamente, l’azione dell’attore. La questione, infatti, è di riflettere su quali istanze l’arte attorale – o la “cultura dell’attore”, come dice Taviani – offra oggi. Dominati dalla logica del botteghino, dell’incasso, l’attore rischia di essere sempre più inteso come “testimonial”, il volto riconosciuto, il richiamo per gli abbonati. Oppure il dilettante allo sbaraglio, il “preso dalla strada”, quello che bofonchia in dialetto ma è “vero”. E invece, si tratterebbe di superare finalmente l’attore dalle convenienze, dalle mode, dal mercato, della prova brillante del momento.

È quanto accade? Mi pare di no.

Vince il volto televisivo, magari belloccio e riccetto, o ancora vince il “performer” che lo fa strano, tutto mossette, smorfie e linguacce. Eppure ci sono alfieri, tenaci sostenitori di pratiche e tecniche attorali, ci sono maestri – anche loro malgrado – che insistono nel difendere strenuamente le possibilità di un’arte antica come l’uomo. L’Italia, si sa, vantava una tradizione, addirittura aveva un “canone” ormai superato dalle tensioni e dalle pulsioni rivoluzionarie delle tante avanguardie. E oggi “l’innovazione” sembra essere ormai diventata la nuova tradizione. La dico grossolanamente: basta dare un’occhiata a tutti i cartelloni per notare come molti degli artisti consacrati provengano dalle fila della “ricerca teatrale”. Penso, in ordine sparso, a Glauco Mauri, a Toni Servillo, a Carlo Cecchi, Renato Carpentieri, Sandro Lombardi, Andrea Renzi, Elisabetta Pozzi, Ermanna Montanari, Massimo Popolizio, Maria Paiato,Fabrizio Gifuni, Gianfelice Imparato e ad altri che sarebbero certo da citare, anche tra le nuove generazioni.

Una rivoluzione, dunque, c’è stata.

Ma la questione etica è ancora urgente, e torna anzi a imporsi perché le conquiste fatte rischiano di svanire sotto i colpi della visione economicista e aziendale, produttiva e commerciale che si sta imponendo.

Ripensavo a tutto questo vedendo, al Teatro Nazionale di Genova, in rapida sequenza due spettacoli diversissimi tra loro , un po’ di tempo fa. La città, come è noto, vive un momento di grande difficoltà, ma continua ad esprimersi attraverso i suoi teatri, e il pubblico risponde alle tante proposte diverse, ritrovandosi nelle platee cittadine. C’è bisogno, ancora e sempre, di teatro.

Il primo lavoro cui ho assistito, dunque, è un super-classico: John Gabriel Borkman di Ibsen, messo in scena con la regia di Marco Sciaccaluga e interpretato, assieme ad altri, da un terzetto d’eccezione, come Gabriele Lavia, Laura Marinoni e Federica Di Martino. È qui si riverbera una scuola, un modo, un pensiero di fare teatro, di affrontare il personaggio che è unico. Vedere Lavia – come si muove, come sposta i piedi, come usa le mani, come modula i toni, come a tratti gigioneggia gratificando il pubblico addirittura in qualche vuoto di memoria – è sicuramente affascinante. Quella arte “antica”, quel modo di portare il personaggio, sono frutto di una attitudine, di costanza che è superamento di tempo e generazioni. Si può apprezzare o meno, discutere o meno: ma qui c’è sapienza, amore, consapevolezza del mestiere. Nelle bellissime scene di Guido Fiorato (non se ne vedono più di questo livello!), lo spettacolo di Sciaccaluga ha in sé la forza di quella tradizione: innervata dalle tensioni interpretative di una ottima Laura Marinoni, dalla presenza garbata della Di Martino, e soprattutto da quell’istrionismo d’antan di Lavia, ne viene fuori uno spettacolo resistente al tempo e alle mode, che consiglierei a tutti i giovani aspiranti attori o attrici. Perché è interessate cogliere in uno sguardo l’intero percorso di Lavia, che è stato ed è attore innovativo, rivoluzionario a suo modo ed oggi è un “classico”, alfiere di un repertorio altrimenti in via d’estinzione.

 

Milvia Marigliano, foto Bepi Caroli

 

E poi l’altro spettacolo di cui volevo dire. Alda, diario di una diversa è un attraversamento che il regista Giorgio Gallione ha fatto della vita e dell’opera di Alda Merini. Un robusto lavoro di drammaturgia, con le scene di Marcello Chiarenza e, al centro, una attrice di rara qualità, Milvia Marigliano. La seguiamo da tempo, è forse una delle maggiori interpreti del nostro teatro. Qui si nota, allora, con nella ferrea disciplina scenica di Marigliano, un percorso diverso, alternativo a quello di Lavia: scuola e modalità, attitudine e rimandi fanno pensare a un altro universo teatrale. Eppure si avverte, in entrambi, quella capacità rara di esser se stessi attraverso il personaggio, di mantenere viva, insomma, una propria identità pur dando – o evocando? – il personaggio. In Milvia Marigliano, nelle tante prove in cui l’abbiamo vista, c’è questa innegabile capacità di attingere a un proprio bagaglio di sentimenti, sensazioni, a un carico di umanità unico e straordinario. E di Alda Merini, allora, l’attrice dà un ritratto amaro, dolente, segnato: la toglie dall’icona dell’amour fou in cui troppe semplicistiche interpretazioni hanno relegato la poetessa, e ne fa intellettuale raffinata ma anche madre disagiata, donna incompresa, solitudine disperata al di là di ogni retorica sulla follia. La Marigliano, lavorando anche con altri registi (Valerio Binasco e Arturo Cirillo su tutti), ma anche al cinema, affronta quotidianamente la sua battaglia tra tradizione e innovazione, performatività e interpretazione, tra immedesimazione e straniamento.

Insomma, tutto questo per dire cosa: che ci sono attrici e attori che ancora si interrogano su cosa significhi « a possibilità di ricevere e usare un patrimonio del passato in modo da trasformarlo». Possiamo fare altri nomi, certo: gli esempi robusti non mancano. Ma mi sembra importante cogliere, oggi, questa tensione interpretativa e creativa, questo slancio da Angelus Novus, di guardare al passato e volare verso il futuro.

 

TAG: Alda Merini, Arturo Cirillo, eugenio barba, Fabrizio Gifuni, Gabriele Lavia, genova, Giorgio Gallione, Glauco Mauri, Henrik Ibsen, Jerzy Grotowski, John Gabriel Borkman, Laura Marinoni, Massimo Popolizio, Milvia Marigliano, Nando Taviani, Teatro Nazionale Genova, Toni Servillo, Valerio Binasco
CAT: Teatro

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