Il Teatro, I sogni e le illusioni in “Amleto take away”

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7 Aprile 2022

A dispetto del tempo che passa i drammi di William Shakespeare si confermano ancora come miglior grimaldello utile a scardinare le porte chiuse, cioè l’indicibile, della nostra esistenza. Pure quelle odierne di uomini che in quelle vicende teatrali si rispecchiano, messi a nudo nella loro cosmica solitudine. Le trame del Bardo sono archetipi, diversamente dai classici, di un’epoca moderna fotografata nel divenire (e come tale memorizzata nel Dna) dove l’uomo occidentale, acquisita coscienza del potere e della sua corrispettiva vacuità, si tormenta e s’interroga sul modo di stare al mondo rapportandosi con i propri simili. Iniziando innanzitutto da sé stesso, dalla propria coscienza. Per questo Shakespeare è illuminante. Dà voce e amplifica interrogativi su come lo spazio del vivere quotidiano possa bruciarsi in un solo battito di ciglia: tra amarezze e dolori, gioie e conquiste, delusioni e rabbia. Consolati appena da qualche amore intenso e fuggitivo. Sono scenari di lotta continua dove l’esistenza di ciascuno è messa a dura prova in uno scontro con una realtà sfuggente, difficile da codificare tra verità e menzogne. Questa ricerca nel mettere a fuoco il quotidiano si incontra in un originale “Amleto” visto qualche sera fa al Tse di Cagliari nella rassegna del Teatro del Segno, dedicata all’amata figura di Gianluca Floris, cantante lirico e scrittore scomparso di recente. Una messa in scena obliqua e aggiornata alle vicende di un eroe del nostro tempo bizzarro e ciclotimico, esagerato e prolisso reso in modo ispirato dall’attore Gianfranco Berardi assieme a Gabriella Casolari, serva di scena e spalla puntuale nonchè coautrice di drammaturgia e regia di “Amleto take away” che intreccia le vicende del principe di Elsinore con quelle semi biografiche di un attore diventato ipovedente nella preadolescenza. Un interprete di statuaria forza espressiva, portatore di un’arte nobile che a tratti rimanda alla maestosità di un gigante del teatro contemporaneo quale è stato Leo De Berardinis, evidente punto fermo d’ispirazione, ma anche alla dinamica capacità di leggere e trasfigurare il presente di un maestro come Cesar Brie.

Gianfranco Berardi nel ruolo del principe di Danimarca in “Amleto take away” andato in scena di recente al Tse di Cagliari (foto Dietrich Steinmetz)

Berardi è tutta sta roba e anche di più. A tratti il suo flusso recitativo sembra sul punto di straripare, baroccheggiante quasi, per la preziosità dell’eloquio accompagnato da una corposa gestualità fatta di danzata eleganza, eppur abitata da un animo fortemente popolare che lascia emergere qua e là le origini di uomo del Sud. Verboso fino all’eccesso Berardi intreccia le parole come versi di un canto che mescola alta poesia a ruvida narrazione di pezzi di vita vissuta. L’attore, d’altra parte, dichiara sin dall’ingresso in scena la volontà di mettere e mettersi in croce mostrandosi appeso come un Cristo con i polsi legati al simulacro di un teatrino mobile dal sipario aperto.

“Soffro ma sogno. Per questo io vivo. Sognando. Mi immergo in quello che ho dentro che vedo anche se non esiste; che perdo, se il giorno seguente diventa reale. E cerco chi sono, chi fingo di essere, dove mi nascondo, lenisco il dolore sognando, è l’unico senso reale”.

Così esordisce abbigliato con la camicia bianca del principe danese ferito nell’anima. Una dichiarazione simile a una stilettata dentro la carne del tragico Amleto e della propria esistenza. Di uomo e di attore. Essere o apparire: sognare per cancellare il dolore laddove la realtà fa più male. Le parole, a partire da questo istante, raccontano e cuciono in unica tela quelle del giovane Berardi figlio di un operaio dell‘Ilva di Taranto, nel momento in cui saprà della incipiente cecità, come le altre del principe di Danimarca immerso nel culto ossessivo del padre, tra trame e svelamenti, congiure e voglie di vendetta.

Gabriella Casolari e Gianfranco Berardi durante la messa in scena di “Amleto take away” comprodotta con il Teatro della Tosse (foto Tommaso Le Pera)

E’ così un “Amleto” che allude alla contemporaneità, figlia di un malessere che viene da lontano.

“La mia generazione è schiacciata, tra gli under 35 e gli over 63. Tra lo studio che non serve e il lavoro che non c’è. Tra avanguardie incomprensibili e tradizioni insopportabili. Io sono accecato, come una falena vago di vetrina in vetrina alla ricerca costante di qualcosa che mi appaghi e che mi dia un po’ di calore in questo mondo abbagliante, pieno di meraviglie luccicanti, dove tutto è rovesciato e capovolto. Dove l’etica è una banca. Le missioni sono di pace. La guerra è preventiva. Le bombe intelligenti, dove un diamante è per sempre. E l’amore non è che uno yogurt da consumare con sapore il giorno di Natale in offerta speciale”.

In questa denuncia c’è slancio ribelle e contestatario contro il luccichio consumistico, le sirene del capitalismo che attraverso il tubo catodico ammaliano e corrompono la vita delle persone. E l’avversità per il cambio di senso messo in campo dalla più terribile delle umane perversità: la guerra, evidenziata e fulminata dagli ossimori utilizzati (bombe intelligenti, guerra preventiva etc…) .

E’ una società posseduta da ritmi altissimi, quella attuale, dove si corre in tutte le direzioni come avviene nel film di Godfrey Reggio con le musiche di Philip Glass, “Koyaanisquatsi”, che in un’ora e mezzo mostrano l’evoluzione della civiltà come la conosciamo: costante e continua, dalla natura all’opera dell’uomo. Una società dove apparire è fondamentale. Di vitale necessità addirittura. Un presente in cui Berardi, tramuta il celebre dubbio “To be or not to be” in “To be or Fb” : cioè la quotidiana invasione e intromissione dei social dentro la rete di relazioni umane. Certificandone al fondo tutta la triste e desolante solitudine in un’incontro in chat con Trudy 69 “alta, bionda, magra e formosa”.

Un primo piano dell’attore Gianfranco Berardi alle prese con il monologo in “Amleto take away” (foto Dietrich Steinmetz)

La sottolineatura e l’indicazione sono drammatiche. Eppure in scena è un’altalena di sensazioni forti che si alternano a improvvisi guizzi di comicità. Mentre si sfiora il dramma una battuta folgorante e ironica sembra rimettere tutto in discussione con un doppio salto mortale. E’ la follia vera e/o apparente di Amleto che ora comanda il gioco imprimendo veloci e continui cambi di scena. Una panca in legno è sedia, base d’appoggio e leva, viene lasciata cadere di botto qui e là, quasi per esplorare lo spazio, misurandolo e dividendolo per angoli e rette. Il monologo prende forza e nel secondo quadro regala un piccolo capolavoro: va in onda l’incontro con lo zio Claudio, poi quello con la regina madre, lasciando il finale all’insinuarsi del fantasma del padre.

Prima Amleto chiede cosa può fare per il suo dolore e colui che ha ucciso il padre e sposato la madre gli risponde “Fatti una risata Amlè! Tira questa faccia dalla polvere, togliti questo aspetto funebre ridi, come faccio io, nipote mio, ridi che la vita ti sorride”.

“Tu ridi, mio caro zio, ma sei uno scellerato” ribatte il principe. E Claudio: “Ma meglio scellerato che inguaiato, Amleto! Tu già sei ciecato, poi diventi pure depresso, hey si è detta “a mess”.

Alla madre Gertrude che si lamenta perché non va mai a trovarla Amleto risponde che è “sempre lì in poltrona seduta davanti al televisore, in una mano la corona e nell’altra il cellulare, che devi finire di giocare. A Candy Crash, a Farmy Rose Saga…”. Più che un dramma sembra una “situation comedy”. A siglare il tutto è il padre o la sua evocazione di spirito impalpabile che vuole salva la Regina (“Tua madre è così, non la punzecchiare. Lascia che siano le spine che ha nel suo cuore a farla soffrire, tu non la giudicare”) e poi l’affondo a suo modo esilarante: “E poi dico io, ma perchè ci devi sempre sputtanare? Che sono un operaio, che leggo Tex Willer, che hai visto tua madre scopare con tuo zio, ma dico io parla dei cazzi tuoi Amlè!”.

Essere o apparire? l’atto unico di Berardi e Casolari rilegge in chiave contemporanea l’Amleto (foto Dietrich Steinmetz)

“Amleto take away” in tutta la sua progressione procede così accogliendo al suo interno e prepotentemente, la macchina del teatro. La strada è tracciata e il dramma double face va avanti  a suo modo rispettoso del testo shakespiriano sino alla straziante fine di Ofelia simbolizzata da una veste immersa in un secchio d’acqua e i due attori che spargono dei fiori bianchi sul palcoscenico, adornandosene i capelli e il corpo: immagine che richiama alla memoria il dipinto del preraffaellita John Everett Millais custodito alla Tate Gallery di Londra dedicato proprio a Ofelia.  E’ una linea che non conosce sbandamenti. Berardi attraversa i generi con bravura, dalla tragedia all’opera comica, dal monologo alla commedia a più voci, cercando anche, con un attraversamento della quarta parete il contatto diretto e cercato con il pubblico. Certo alla fine qualche smagliatura c’è, ma che importa? Meglio così. Che si avverta e si senta come viene consumato il dramma, si possa percepire il farsi ruvidamente del teatro, passionale e generoso come pochi, a tratti coinvolgente come una grande passione d’amore.

“Amleto Take away” coprodotto dalla compagnia con il teatro della Tosse si avvale delle musiche di Davide Berardi e Bruno Galeone, Luci di Luca Diani. Drammaturgia e regia sono di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari. Dopo il lungo stop dovuto dalla pandemia la compagnia Berardi Casolari ha finalmente ripreso con la tournèe.

Dal 12 al 16 aprile saranno in scena al Teatro della Tosse di Genova con lo spettacolo “Io provo a volare” (alle ore 20,30). Nel mese di maggio invece la compagnia con “I figli della frettolosa” approderà al Teatro Miela di Trieste il 5 e il 6  e poi al Teatro Storchi di Modena il 14.

Gabriella Casolari e Gianfranco Berardi sono gli autori della scrittura e della regia di “Amleto take away” (foto Dietrich Steinmetz)

TAG: Amleto, cagliari, Cesar Brie, genova, Goffrey Reggio, ilva, Koyaanisquatsi, Leo de Berardinis, modena, Philip Glass, taranto, Tex Willer, William Shakespeare
CAT: Teatro

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