“La Tempesta” di Alessandro Serra nel Nuovo Mondo di Shakespeare

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8 Febbraio 2023

E Ariel spiccò il volo. Il cono di luce indugia sul volto dello “spirito arioso” ed è nell’attimo in cui le sue braccia si dibattono come ali d’uccello che tutto diventa buio. Una repentina dissolvenza prima di tornare aria. Nero profondo. L’incantesimo è sciolto: liberi finalmente. Questo è il sorprendente ultimo frammento visivo de “La Tempesta” di William Shakespeare,“agito” in modo leggiadro e sognante da Chiara Michelini, elegante danzatrice prestata al teatro nel ruolo del folletto. La tragicommedia con la regia di Alessandro Serra, prodotta dal Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, Teatro di Roma-Teatro Nazionale; Emilia Romagna Teatro Fondazione e Sardegna Teatro, è stata presentata nelle ultime settimane in Sardegna, a Sassari e Cagliari, per l’organizzazione Cedac, poi Trento, al Teatro Ivo Chiesa di Genova e al Bellini di Napoli. Nelle prossime settimane inizierà un tour che porterà la compagnia Teatropersona in Francia, Austria, a Vienna per le “Olimpiadi del teatro”, Serbia etc…

Meglio raccontarla così, partendo dalla fine, proprio perché quell’ultimo fotogramma, prima dello scorrere del rullo -l’inizio del volo congelato in una manciata di secondi- è il suggello ad un’opera complessa, accattivante, che sulla magia e il sopranaturale ha i suoi presupposti iniziatici ma non certo l’unico fine. A metà tra il dramma e la commedia: così come è la vita. Una storia fantastica che non smette di stupire, stavolta dentro una conturbante fascinazione visiva, tale che ogni sequenza e momento diventa tessera di un composito mosaico. La prima fonte è quella del Bardo raccontata fino ai giorni nostri da diversi maestri. In Italia, da Giorgio Strehler che la portò in palcoscenico nel 1978 a Eduardo de Filippo che la tradusse in partenopeo del Seicento, quello parlato al tempo di Shakespeare. Ma tanto deve a Peter Brook alla cui lezione, Serra, guarda con rispetto. A quello che “La Tempesta” ha voluto dire per l’artista inglese.

L’apertura de “La Tempesta” di William Shakespeare con la regia di Alessandro Serra : In scenata danzatrice Chiara Michelini (Foto di Alessandro Serra)

Dramma feticcio allestito alla fine dei Cinquanta (1957) e all’inizio dei Novanta in Inghilterra (1990) e poi in Francia, al festival di Avignone e a Parigi, nel suo teatro di Bouffes du Nord. (2020 e 2021 assieme alla sua fedele assistente Marie Hélène Estienne). Più volte: quasi a cercare qualcosa che, ad ogni allestimento, sembrava sfuggire nelle trame di un racconto tra metafisico e quotidiano. Perso tra temi universali, come l’identità, il tradimento, la vendetta, l’amore e il perdono… “La Tempête est une énigme, c’est une fable où rien ne semble pouvoir être pris à la lettre et si on reste à la surface de la pièce sa qualité cachée nous échappe” (“La Tempesta è un enigma, è una favola in cui nulla sembra essere preso alla lettera e se si rimane alla superficie dell’opera si perde la sua qualità nascosta…”).

Così riflette a pochi mesi dalla scomparsa (luglio 2022) Peter Brook, riferendosi al suo ultimo allestimento a Bouffes du Nord, “Tempest Project”, laboratorio aperto dove il teatrante ha lavorato per sottrazione assieme ai suoi attori per individuare ancora temi e percorsi sottotraccia che stanno dentro l’opera. Giusto per significare il senso di sfida a cui Alessandro Serra è andato incontro quasi in contemporanea.

Ma Shakespeare sicuramente porta bene a Serra che, come accadde per “Macbettu” _ tratto dal “Macbeth” che lo ha consacrato a livello internazionale_ è capace di individuare nei drammi dell’autore di Avon, scorci originali, intuizioni, insoliti punti di vista e soluzioni visive anche molto ardite, spinto dalla voglia di realizzare opere teatrali totali in cui scene, luci e macchineria possano comporre il quadro di insieme per accogliere le storie.

L’attore Marco Sgrosso nel ruolo di Prospero e la danzatrice Chiara Michelini in quello del spiritello Ariel al servizio del mago duca di Milano (Foto di Alessandro Serra)

Come avviene nel finale, anche l’ouverture propone un incipit da coup de theatre: un telone nero argento agitato al vento: vela di vascello in balìa di un mare in tempesta, dove fa capolino in controluce la silhouette dello spiritello Ariel, responsabile del fortunale, che danza in modo conturbante il mare, le onde, i tentacoli delle piovre evocando gli abissi. Il vociare ansimante dei marinai, le grida, le luci e i rumori di fondo portano in primo piano il naufragio nell’isola dove vive esule Prospero, artefice di tale magia. E dove i viaggiatori approderanno in piccoli gruppi, convinti di essere dei sopravvissuti agli altri, e preda di una malefica malìa. Da adesso in poi si procede a tre metri dal suolo, più vicini al cielo, in un’atmosfera che avvolge magneticamente attori e spettatori, tutti dentro la “stessa materia di cui sono fatti i sogni” (“We are such stuff. As dreams are made on, and our little life Is rounded with a sleep.”- “Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.” Prospero. Atto IV scena 1). Aerea e sognante “La Tempesta” segue l’intreccio di un racconto cucito con filo invisibile, governato dal bizzarro e prepotente deus ex machina, Prospero. Nel suo libro di magia sono disegnate le pagine di una vicenda che, inizialmente sembra avere i presupposti della tragedia. Il signore dell’isola e mago, già duca di Milano, vittima di una congiura ordita dal fratello Antonio e da Alonso re di Napoli, viene gettato in una nave assieme alla figlia Miranda ,ancora in tenera età, in esilio in questi lidi sconosciuti. Qui continuò gli studi praticando le arti magiche. Dodici anni più tardi in virtù dei poteri dello spiritello Ariel suo schiavo _ Prospero lo liberò da un pino dove l’aveva imprigionato la strega Sicorace madre di Calibano, unico nativo del luogo, di sgradite sembianze, anch’egli schiavo _ provoca il naufragio della nave, al rientro da Tunisi, dove viaggiano il fratello usurpatore, il re di Napoli, il figlio Ferdinando e il loro equipaggio con il fratello Sebastian, Gonzalo, amico di Prospero e i valletti Stefano e Trinculo. Questi vengono avvicinati da Calibano che li coinvolge in un piano per assassinare il suo padrone allettandoli con il premio di diventare signori dell’isola.

Nell’imagine l’attore Bruno Stori tra gli interpreti de “La Tempesta” la tragicommedia di Shakespeare diretta da Serra (Foto di Alessandro Serra)

Nel frattempo in un’altro luogo Antonio e Sebastian macchinano per impadronirsi della corona napoletana mentre il re di Napoli è disperato per la scomparsa tra i flutti del figlio Ferdinando, invece salvo e in procinto di innamorarsi della giovanissima Miranda che, dal canto suo, sarà il primo uomo che incontra in vita sua. Sono tutte pedine dei piani di vendetta di Prospero padrone della scena _ reso in modo quasi notarile da Marco Sgrosso apparso un po’ ingessato nella tonaca candida da santone _ coadiuvato da Ariel e gli spiriti dell’isola, e che giunge persino a sovrintendere e favorire la nascita dell’amore tra la figlia e il principe napoletano. Sventato il piano scellerato di Calibano, rivelato a tutti il golpe del fratello, con il conseguente perdono arriva lo scioglimento finale dell’incantesimo. La nave potrà riprendere il viaggio verso Napoli  per le nozze di Miranda e Ferdinando e il ducato di Milano tornerà finalmente nelle sue mani.Titoli di coda.

Il tradimento, la fuga, il naufragio, l’amore, la rivelazione e il perdono.

Questo è il plot nudo e crudo che l’arte di Serra trasforma volta per volta in quadri onirici, incantamenti d’amore, esplosioni di meraviglia. E attimi di divertente commedia, quasi una saga picaresca, l’incontro tra Calibano, un notevole Jared McNeill, Stefano e Trinculo, interpretati in modo convincente da Vincenzo del Prete e Massimiliano Poli, i due valletti partenopei ritrovatisi dopo il naufragio (“And art thou living, Stephano? O Stephano, two Neapolitans scaped! ). Buoni compagni di bevuta di vin di Spagna tracannato da improvvisate bottiglie di legna, che tra battute dialettali e colorati epiteti, guazzano a loro agio nel ruolo immersi in un mood fatto di umori e colori popolareschi. E a proposito di guazzare, cercando Prospero da eliminare, finiranno in uno stagno di acqua lurida e puzzolente. Nudi come vermi, costretti a levarsi i panni umidi, indosseranno felici dei provvidenziali abiti di eccentrica foggia e colori vivaci pescati (o rubati?) al volo da una rastrelliera piovuta giù dal cielo.

Il trio composto da Calibano, e i valletti Stephano e Trinculo interpretati da Jared McNeill, Vincenzo Del Prete e Massimiliano Poli: il loro progetto di uccidere Prospero fallirà (Foto di Alessandro Serra)

E Calibano? Il nativo additato come mostro, acculturato e schiavizzato da Prospero, svetta per la maiuscola interpretazione di Jared McNeill, in uno dei baricentri dell’opera di Alessandro Serra che, in sintonia con la studiosa Nadia Fusini vede nel personaggio il cuore di tenebra de “La Tempesta” . Opera dove, Shakespeare, con il suo realismo segnala tra i versi l’interesse per il Nuovo Mondo e ciò che significa, cioè l’imperialismo e il colonialismo dei bianchi: quello portato da Colombo in America e dagli stessi inglesi in Oriente.

Calibano è così anche rabbia e voglia di riscatto. Soprattutto di libertà, vero fil rouge dell’intera tragicommedia. Elemento centrale di un’opera che in questo ha un aggancio preciso con la contemporaneità (sua e nostra).

“Caliban” è un anagramma che il Bardo deriva dalla parola “cannibale” (il drammaturgo conosceva il saggio di Montaigne, “On Cannibals”, tradotto in inglese nel 1603 da Giovanni Florio). Un termine a sua volta derivante da “Caribe”. Guarda caso i Caribi, tra i più fieri oppositori dei colonizzatori europei ebbero distorto il nome in modo brutale grazie a Colombo che una ventina di giorni dopo la scoperta dell’America annotava “che lontano da lì c’erano uomini con un occhio solo e altri con musi di cani che hanno mangiato uomini”. E, ancora, che esisteva una terra “molto grande (Haiti) e su di essa c’erano persone che avevano un occhio sulla fronte, e altre che venivano chiamate cannibali, di cui avevano grande paura”. “Caribe” cioè cannibale, antropofago. Basta poco a creare il mostro, tratteggiare come nemico l’altro, il diverso. Selvaggio da assoggettare e rendere schiavo. Per giustificare cioè con quel corredo tutti i Prospero e i colonizzatori che esercitano così il dominio e potere. Shakespeare colpisce sempre nel segno e non a caso la sua “Tempesta” ha continuamente attratto intellettuali e scrittori latino-americani che identificano lo stato di asservimento coloniale nelle figure di Ariel e, soprattutto di Calibano. Il primo, sempre obbediente, l’altro invece – una volta il vero padrone dell’isola – , il nativo, a cui Prospero ha insegnato la lingua trasformandolo con i suoi poteri magici in schiavo. Servo ribelle e riottoso, come si evince nello scambio di invettive tra i due nella seconda scena del primo atto dell’opera.

Calibano e i due valletti finiscono in uno stagno e si cambieranno d’abito grazie a una provvidenziale rastrelliera scesa dal cielo (Foto di Alessandro Serra)

Caliban: “You taught me language, and my profit on ’t Is I know how to curse. The red plague rid you For learning me your language” (“È vero, tu m’insegnasti a parlare; e l’unico vantaggio ch’io ne traggo è questo: che ora posso maledire). Perciò ti colga la peste bubbonica per avermi insegnato il tuo linguaggio!”). E’ ancora Nadia Fusini a osservare lucidamente che “Di fatto l’arte di Prospero fallisce con lui; la pietà di Miranda va a farsi benedire, o maledire; la loro lingua non si appropria di Caliban, semmai Caliban si appropria della loro lingua per maledirli” (Rivista Culturale 2020).

E, ancora a questo proposito, Roberto Fernández Retamar, importante poeta e saggista cubano nel suo volume “Calibano. Saggi sull’identità culturale dell’America latina” (2002, edizioni Sperling e Kupfer) afferma: “Il nostro simbolo non è Ariel, come pensava Rodó (lo scrittore uruguaiano José Enrique Rodò, 1871-1917), ma Calibano. Questo è un aspetto che noi meticci, che abitiamo queste stesse isole dove viveva Calibano, vediamo con particolare chiarezza: Prospero invase le isole, uccise il nostro. Cos’altro può fare Calibano se non usare quello stesso linguaggio per fare del male, ad esempio per augurare la “peste rossa” (“red plague”) su di lui? Non conosco una metafora più accurata della nostra situazione culturale, della nostra realtà”.

In primo piano Calibano impersonato da un talentoso Jared Mc Neill assieme a Vincenzo Del Prete in “La Tempesta” (Foto di Alessandro Serra)

Ogni quadro dell’allestimento di Serra ha un preciso significato semantico. Alcuni più di altri. Sono esposti in ricerca continua di equilibrio tra il vuoto e il pieno, tra bianco e nero per isolare problematiche e agevolarne successiva riflessione. Suggeriscono temi che sembrano volare in superficie ma hanno pure gambe forti, come quello della libertà, di trovare il cammino attaccati al suolo. Ad esempio è il costante riferirsi del regista alle tradizioni popolari e alla ricerca etnografica (in questo allestimento in modo rilevante) un elemento che può fare la differenza in molto teatro contemporaneo. Dalla scena che suggerisce i rituali voodoo di Haiti a quelli del “mascheramento”. L’intreccio citato, questo si veramente magico che rimanda alla notte dei tempi, tra uomo, “animalità” e “natura”. Dietro le quinte c’è e si sente, la fascinazione per i riti del Carnevale. Lo è stato per “Macbettu” dove c’è l’irrompere del “Carrasegare” (cioè Carnevale) di Mamoiada come forte elemento di ispirazione E lo è anche qui. Le straordinarie composizioni di arbusti e rami che spuntano dalle teste degli attori è un riferirsi o no a tradizioni anche carnevalesche di diverse parti d’Italia e d’Europa? Dalla Foresta nera (Waldkirch) al Carnevale di Satriano di Lucania, la Foresta che cammina, dove gli alberi diventano uomini e gli uomini diventano alberi (una bella citazione shakespiriana!). Uomini albero che scelgono di vivere nella natura, dentro una grotta o in un albero come luoghi per stare in contatto con il mondo degli avi, nell’incerto confine tra la vita e l’aldilà.

Nell’allestimento de “La Tempesta” curato da Alessandro Serra, il richiamo all’etnografia, come negli altri lavori, è sempre fortissimo (Foto di Alessandro Serra)

Non è un caso che il teatro di Alessandro Serra sorga dal buio. E tenga ben delineate linee di separazione. Scenografie di luce che “tagliano” lo spazio chirurgicamente: anche in “La Tempesta” tutto avviene dentro una pedana-ring oltre la quale milita e affascina l’ignoto. Qui nascono visioni che possiedono una forza capace talvolta di disorientare gli stessi attori, chiamati ad affrontare una lotta aspra con la potenza delle immagini. Occorrono metodo e solidità per contrastare il flusso emotivo di una “Tempesta”. Indispensabili e necessari per dare equilibrio al tutto e umana profondità a un racconto che in primis è sulla libertà.

Serra stavolta ha puntato più in alto cercando probabilmente una legittimazione sul terreno della grande prosa d’autore. Obiettivo raggiunto, ma ancora insufficiente per un teatrante simile. Serra sta costruendo una originale via alla rappresentazione. Normale che provi a percorrere strade già conosciute accanto a quelle poco battute. D’altra parte fa tutto da solo. Dalla regia alla conduzione degli attori, dalle luci (davvero magnifiche) alle fotografie (anche qui risultati al top). E poi l’immersione in quelle scene notturne che generano stupore e meraviglia come un’antica arte insegna… Certo, tanto dispendio di energia a un certo punto può anche provocare qua e là qualche buco o défaillance. Come l’equilibrio da raggiungere tra recitazione e flusso delle immagini. L’impressione generale è che lo spettacolo _che tiene incatenato il pubblico alle visioni _ sia il risultato finale anche di un confronto non banale con le grandi firme del palcoscenico. Quelle soprattutto che lo hanno preceduto. E a cui Alessandro Serra in questo allestimento ha dedicato un omaggio non convenzionale e sincero.

Primo piano della scena del banchetto in “La Tempesta” di William Shakespeare nell’allestimento curato dal regista Alessandro Serra (Foto di Alessandro Serra)

“La Tempesta”. Con Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Salvo Drago, Jared McNeill, Chiara Michelini,
Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Marcello Spinetta, Bruno Stori.

Collaborazione alle luci: Stefano Bardelli.

collaborazione ai suoni | Alessandro Saviozzi

collaborazione ai costumi | Francesca Novati

Maschere | Tiziano Fario

Consulenza linguistica | Donata Feroldi

Produzione | Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma / Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione / Sardegna Teatro /

Festival D’Avignon | MA scène nationale – Pays De Montbéliard

in collaborazione con | Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Compagnia Teatropersona

Regia, scene, luci, suoni, costumi | Alessandro Serra

TAG: eduardo de filippo, Giorgio Strehler, Giovanni Florio, José Enrique Rodò, montaigne, Nadia Fusini, napoli, Peter Brook, Roberto Fernández Retamar, William Shakespeare
CAT: Teatro

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