In epoca di crisi occorre attrezzarsi.
Si dovrà fare un altro governo. Serve stare con gli occhi aperti.
Tra le tante, inutili, parole dette, tra i tanti atteggiamenti ridicoli, fanfaroni, machisti, ottusi, nelle trattative in atto, nessuno ha pensato a pronunciare – mi pare – la parola “cultura”. Né arte, né teatro, né danza, né musica… Niente.
Nel florilegio di rosari e verginimarie, nell’evocazione impettita delle “istituzioni” e negli altisonanti proclami, risuona patetico il “versetto” del discorso presidenziale. Giuseppe Conte dice: «È necessario promuovere le infinite vie del turismo: la valorizzazione deve passare anche attraverso il recupero delle nostre più antiche identità culturali, tradizioni locali, della bellezza dei nostri borghi e dei piccoli Comuni. E mi piace ricordare che con recente delibera abbiamo stabilito che il prossimo 26 ottobre sia la giornata nazionale dedicata alle tradizioni popolari e folkloristiche». L’ha detto. Davvero.
Ecco qua. Questo è l’emblema, il simbolo, di quanto ha espresso il governo sino ad oggi in fatto di cultura: la giornata nazionale delle tradizioni popolari e folkloristiche. Tutto bene, per carità: prepariamoci a festeggiare, ci piace il folk e ci piacciono anche le sagre.
Ma poi? Cambierà? Ci penseranno un po’ di più?
Intanto, con la caduta del governo passa, si spera passerà, quel ministro-ombra, Alberto Bonisoli, che ha avuto la carica del Mibac, il Ministero dei Beni Culturali: generalmente inesistente e pressoché nocivo quando presente.
E si spera passi la confusa, inutile, mal fatta “riforma del teatro”: raffazzonata, rabberciata strada facendo, palesemente ingiusta. Potrebbe essere l’occasione per fare davvero un ragionamento serio sul “sistema”. Perché così le cose non vanno. Se ne è avuta prova, laddove ce ne fosse ulteriore bisogno, nell’ultima ondata di finanziamenti: teatri considerati tra i migliori d’Italia (o quasi) sono stati penalizzati da pesanti tagli. È accaduto all’Ert-Emilia Romagna Teatro e al Teatro di Roma e ad altri ancora. Divertente, no?
In più, mentre i tagliati protestavano, altri festeggiavano per aver avuto una maggiorazione nei finanziamenti. Ecco la meritocrazia d’oggi: un po’ punk e un po’, mi si conceda il termine, “a cazzo di cane”.
È la guerra di tutti contro tutti, la guerra dei ricchi contro i poveri, nell’assoluta insondabilità di un sistema che dovrebbe avere “paletti” quantitativi (il famoso “algoritmo” che regola i finanziamenti assieme al “controllo qualità”) e invece pare del tutto privo di fondamenti. E dove la valutazione qualitativa, pur di vitale importanza, non sembra esser presa in conto.
Il tutto, poi, ha provocato la creazione di (mega)produzioni che nascono e muoiono nell’arco di poche settimane se non di giorni, non potendo “girare” in altri teatri (quindi tanta produzione e poca distribuzione) e un incentivo, nemmeno troppo velato, alla concorrenza, più o meno spietata, senza un respiro progettuale ampio e a lungo termine – dunque sempre i soliti titoli, in “nomi” che richiamano, eccetera eccetera. Non la faccio lunga in questioni tecniche, non è questa la sede, e ci tornerò.
Ma appare evidente che il sistema è sballato. È un sistema che ha imposto all’arte, al teatro, le regole feroci del capitalismo: fare numeri, competere, vincere, ottenere risultati. È un sistema che ha assunto, modificandole, le parole dell’arte per piegarle alle logiche del liberismo: la “novità” oggi è di un prodotto, non di un linguaggio; la “performance” è dei titoli di borsa, non di artisti. Lo stesso accade per parole come creatività, innovazione, necessità, bellezza…
Allora sembra “naturale” che le alzate di sipario, in questo sistema distorto, valgano più di quel che resta della “creatività”: il teatro trattato alla maniera del mercato, il teatro parte del mercato.
E il “genio” – laddove ci fossero genii – diventa subito un brand, qualcuno da blandire, sfruttare, consumare, a ritmi vorticosi. L’artista che “sfonda” sembra pari all’imprenditore di successo, e assurge addirittura a simbolo di chi ce l’ha fatta, di quello che è riuscito nella “giungla del mercato”. L’artista come l’imprenditore, ha ancora l’aura del “più indipendente”, e per questo è preso a modello di quanto e come sia “libera” la nostra società: un paradosso in un mondo che ormai imputa il fallimento, la depressione e la disperazione solo all’individuo, alla colpa o all’incapacità del singolo, e non come esito di un disegno sociale distorto, dove la solidarietà è bandita e anzi, ultimamente, punita per legge.
Scrivono Aeron Bergman e Alejandra Salinas in “Art in the Age of Kleptomania”: «Alcuni artisti ritengono che l’arte sia in opposizione al capitalismo di default. Ma dobbiamo renderci conto che anche le più articolate prese di posizione e i più sinceri oppositori sono depotenziati e assorbiti nell’ecosistema artistico che è un global party non-stop, e invita i suoi critici più temibili a unirsi alla festa. Fino alla parodia. Gli artisti sono omaggiati per il loro successo e per il loro ego, piuttosto che per i contenuti critici delle loro opere». All’arte, insomma, sembra non restare altro da fare che adattarsi per sopravvivere in questo sistema: come sfuggirne, se appena fai qualcosa di “scomodo”, vieni invitato sul tappeto rosso e alle cene di gala? Se appena alzi la voce sei premiato dal sistema che pure provi a contestare?
Nell’era dei “Manager”, abbiamo accettato – tutti noi: critici, studiosi, artisti, direttori, organizzatori, produttori, tecnici, pubblico – che il teatro, come la società, si mutasse lentamente e inesorabilmente in azienda, con le regole che vigono nella piccola e media impresa. Abbiamo tollerato, le associazioni di categoria in testa, che una politica sempre più volubile e impreparata dettasse regole al settore: chi sperando in brevi tornaconti personali, chi per paura di rimanere fuori dai giochi, chi per mera sopravvivenza. Il sistema di accesso ai finanziamenti, oltre che profondamente mal strutturato, ingiusto, ineguale, è banalmente il riflesso esatto delle disuguaglianze sociali, ed è mantenuto tale, come fosse un fatto naturale, proprio perché normalizza la struttura sociale. Pochi fortunati, molti poveracci. Gli artisti, i teatranti, sono stati messi alla catena, lasciando loro – che sono i protagonisti della scena – le briciole, costringendoli alla lotta per la sopravvivenza. Ovvio, poi, che debbano adattarsi alle leggi di questo sistema-mercato.
Dunque non sta ai teatranti (almeno non solo) cercare un cambiamento. Toccherebbe ai politici cambiare indirizzo, pensare alla cultura, all’arte, al teatro, come qualcosa di diverso dai meccanismi di legittimazione e narrazione del capitalismo neoliberale che ci domina. Fa un po’ ridere sperare che il nuovo governo, qualunque esso sia, possa muoversi in questa direzione.
Allora si tratta, forse, si spostare il baricentro della battaglia: pensare a chi controlla le immagini e l’immaginario. Scriveva bell hooks, ovvero Gloria Jean Watkins, nel 1992: «dalla schiavitù in poi, la supremazia bianca ha capito che il controllo delle immagini è nodale per il mantenimento di ogni dominazione razziale». Un ragionamento che vale per tutte le forme di dominazione – a partire da quelle maschili e patriarcali.
È possibile sviluppare altre immagini? Definire altri immaginari e altri vocabolari, adesso, in questa Italia? Chi se ne assume l’onere? La sinistra? Il Pd? Il Movimento 5S? Il nuovo governo?
«Il neocapitalismo – scrivono ancora Bergman e Salinas – nelle sue varie iterazioni, o semplicemente nella sua cleptomania, è il più grande sistema di controllo della gente, più di qualsiasi religione del presente e del passato». Come sottrarre l’arte a questo controllo? Ovvero come far vivere il teatro fuori dalla sfera del neoliberismo? Ecco la domanda da far risuonare oggi. Il capitalismo domina perché risulta assolutamente perfetto nel tutelare e arricchire i pochi vincitori, mentre attua un sistema di controllo feroce su tutti gli altri. Ovvero su di noi. Sembra impossibile uscirne: ci adattiamo, ci compromettiamo, continuiamo a sognare un “successo” che, statisticamente, non arriverà mai. Come rompere questo circolo vizioso? Non certo sostenendo, come ci capita di fare da decenni, il veltroniano “male minore”.
Diceva Bertolt Brecht: «La critica nasce dalla crisi, e la acuizza». In questa crisi di governo così grave perché pasticciata, goffa, volgare, egotica, forse varrebbe la pena alzare la posta in gioco, non accontentarsi del prossimo ministro “che passa”, rivendicare identità e dignità, ritrovare il senso di quelle parole che il neoliberismo ha sottratto all’arte, al teatro, alla cultura. Si potrebbe pensare a un settore, finalmente compatto, sindacato compreso, capace di farsi sentire e rispettare?
(In copertina, un momento di Orestes in Mosul, regia di Milo Rau, foto di Fred Debrock)
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