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Media

La Verità sta in edicola

di Stefano Golfari
26 Settembre 2016

“Scusi, ha La Verità?” “E’ lì, può prenderla da solo”. “Presa. Quant’è?” “Un Euro, grazie”. “Non c’è di che…”. Fa un certo effetto comprare la Verità in edicola. In formato tabloid. Solo 20 pagine, ma che ci compri a un’euro? Poi quando ho visto la fontina di Belpietro, impaginata a colori sull’editoriale del direttore, mmm… il paragone con il profilo di Lenin che svettava in bianco e nero sulla Правда che fu fondata da Lev Trockij nel 1909 per sbugiardare lo Zar di tutte le Russie, beh… mi è sembrato un tantinino arrischiato. Altre mascelle. Eppure un po’ di prudenza con quel nome sarebbe d’uopo: finì nel ridicolo persino la Pravda dell’ URSS… ricordate? ” Nella Verità non ci sono notizie e nelle Notizie non c’è verità” così canzonavano gli annoiati lettori, se la vodka scioglieva la lingua, i due giornaloni sovietici, giocando sul titolo dell’altro: Известияm “Notizie”. Tipo “Il Fatto”, diciamo. Strano che il giornalismo italiano d’oggidì, in disperata crisi di vendite, di etica professionale, di originalità e di personalità, sia qualcosa che visto dal nido d’aquila dal quale scrivono molti Direttori (e Conduttori televisivi) appaia sicuro di sé quanto e più della roccia monolitica che l'”Odissea nello spazio” di Kubrick immaginava a simbolo della Verità dell’universo, forse Dio. I nomi terra-terra, funzionali tipo “Corriere” o “Gazzettino”… suonano vecchio, non fanno tendenza. Pensare che il Papa battezzi ancora il suo lindo e pulito quotidiano come modesto “Osservatore romano” ti fa capire quanto il Vaticano sia rimasto al palo. E poi da quando i Papi sono due, ci vorrebbero almeno due giornali: come per Feltri e Belpietro, non credete? Che ora vanno in trinità con Sallusti (il più monolitico dei tre) ben distinti da cinquanta sfumate sfumature di grigio tendente al nero, frusta e manette incluse. Sempre più in alto, però, come Mike sul Cervino, si arriva infine sul cocuzzolo dell’ambizione. La Verità. Sfuggita a Ludwig Wittgenstein nel suo Trattato Logico-Philosophicus e a Karl Popper che riteneva scienza solo ciò che è falsificabile in ipotesi, ora arriva nelle edicole italiane. Tranne il lunedì. Sarà… qualcosa tuttavia non mi quadra. La verità giornalistica, se c’è, non ha da essere un filino meno pretenziosa? Ma com’è che siamo arrivati a queste testate da setta evangelica? Eureka! E’ tutta colpa di Caterina Caselli: fu lei che coprì la verità infida dei fatti, quella con la v minuscola e pungente che il coretto ye-ye le sussurrava all’orecchio (“la verità ti fa male lo so…”), con una presa di posizione apodittica, senza repliche: “Nessuno mi può giudicare”. Un successone. Dai favolosi anni ’60 questa asserzione scese come un balsamo divino sul popolo di straordinari individualisti quali siamo, e consolò molti cuori: da allora la qualità precipua per salire ogni grado della gerarchia sociale nostrana, dal vigile urbano al generale, è intesa essere la convinzione di sé. Che in Italia porta dritta al sentimento, tronfio, di essere “qualcuno” se davvero puoi permetterti di fare… un po’ quel cazzo che ti pare. Chi osa una critica, un dubbio, è incenerito dal “Qualcuno”, che è tale, solo quando -per l’appunto – “Nessuno lo può giudicare. Nemmeno tu”. Detta anche “Sindrome del casco d’oro” o “del Cerchio magico”, questa patologia si insinua facilmente nelle menti di capi d’ azienda e capi  Partito (coi Movimenti anche di più), ma nel tipico Direttore di giornale ha la sua massima esplosione: il combinato disposto di sapersi ingiudicabile in quanto “Capo” e per giunta alla guida di un Media che deve piacere a un pubblico totalmente indisposto a riconoscere i propri errori, trasforma il giornalista asceso al cielo della Classe dirigente responsabile di formare opinioni… in una specie di Crociato piacione votato all’imperiosa ricerca di un suo popolo di lettori iper-convinti di sé e di lui, che così tanto gli somiglia. “Quello ha le mie stesse idee” si ripetono allo specchio gli egotici sorcini. “Dice la Verità. Ha le palle” aggiungono leggendo l’editoriale che dà ragione ai loro, già testosteronici, pensieri. E muggiscono convinti. Ecco perché il fragile neonato di un’editoria boccheggiante ardisce un titolo tanto importante: La Verità è la Verità del Direttore, insindacabile e battagliera. Questo deve piacere: se a una piccola o a una grande Crociata, poi si vedrà. L’importante è militare. Detto altrimenti, la Verità in Italia non è più qualcosa che si cerca, ma qualcosa che uno si ritrova in tasca. Quando ne ha troppa per l’uso personale, ne spaccia un po’ a gente che ha quel vizio. Che c’è di male? Infatti, anche “Il Fatto” è in realtà un giornale di opinione. Singolare. Se dici opinioni, al plurale, sei fuori.

 

 

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