La scuola non serve a lavorare, ma ad imparare. Ricordiamocelo

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2 Novembre 2014

Su Gli Stati Generali, qualche giorno fa, Andrea Mariuzzo ha commentato un provocatorio articolo dell’economista Michele Boldrin. Entrambi si sono concentrati sul problema della riforma della scuola secondaria di primo e secondo grado. Per intenderci, le scuole medie e superiori.

Il punto che Boldrin evidenzia è certamente fondamentale per iniziare a discutere una riforma della scuola secondaria. È necessario infatti porre l’accento sulla scelta del modello educativo in base al quale si vuole costruire la scuola, su quali sono i suoi obiettivi e come si intende realizzarli. Io credo, tuttavia, che spesso questo punto sia dato troppo per scontato; e le tesi di Boldrin non fanno eccezione. Vorrei avanzare qualche riflessione a riguardo.

Partiamo dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006. In questo documento gli organi dell’Unione raccomandano agli stati membri una cosa fondamentale: l’istruzione deve fornire ai ragazzi le adeguate competenze che permettano loro di affrontare i problemi della vita adulta ed un facile inserimento nel mercato del lavoro. Per riformare i sistemi scolastici europei in questo senso è necessario comprendere il livello dei diversi sistemi educativi, quindi valutarne la qualità. Utile a questo scopo è sottoporre gli alunni a test in grado di aiutare i decisori politici nel progetto riformatore auspicato. Le istituzioni europee ritengono che lo strumento più adeguato a questo scopo siamo i tesi PISA: programmi di valutazione triennali, nati nel 2000, a cui vengono sottoposti i ragazzi di 15 anni, l’età in cui si conclude la scuola dell’obbligo. Questi Test valutano le competenze transdisciplinari dei ragazzi individuando tre ambiti fondamentali: matematica, comprensione linguistica e scienze.

Dal qualche anno i test PISA sono divenuti l’esclusivo strumento di valutazione dei sistemi scolastici dei paesi OCSE ed hanno assunto un enorme potere nell’indirizzare le idee di coloro che si occupano di scuola, influenzando le politiche scolastiche delle vari Paesi. Vediamo meglio di cosa si tratta e sopratutto quale modello educativo sottendono.

Cosa valutano i test PISA? Se guardiamo alla loro composizione e stiamo alla presentazione che la stessa OCSE ne propone, si capisce che sono slegati da ogni programma scolastico particolare: i test intendono valutare le abilità dei ragazzi nell’affrontare le situazioni della vita quotidiana. Se si possiedono queste attitudini/competenze, dice l’OCSE, allora si accrescerà la propria posizione sociale, così il proprio benessere individuale e, di conseguenza, quello comune. In altre parole attraverso lo sviluppo di queste competenze individuali la società riuscirà a far fronte alle sfide che il presente e il futuro impongono poichè il ragazzo riuscirà facilmente ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Perciò PISA valuta il possesso di una “cassetta degli attrezzi intellettuali” con cui affrontare la vita quotidiana e l’inserimento nel mercato del lavoro; mentre non sono valutate la qualità di particolari conoscenze disciplinari in relazione ai programmi svolti negli istituti scolastici. Per questi motivi i test PISA non valutano la preparazione in vista di un possibile proseguimento degli studi (non direttamente per lo meno); ma solamente il possesso di competenze viste come necessarie alla partecipazione attiva ad un processo di sviluppo economico.

Ciò detto è necessaria una precisazione: non sto dicendo che i test PISA siano inutili o non riportino interessanti informazioni; nemmeno che non sia necessario valutare e comparare i vari sistemi scolastici; neppure che i problemi della crescita economica e dell’allocazione delle risorse nel mercato del lavoro siano slegati dalla qualità delle istituzioni scolastiche.

I punti che vorrei qui sottolineare sono questi:

– i test PISA non sono pensati il linea col fine più importante che la scuola deve perseguire: dare la possibilità a più persone possibile di raggiungere la formazione più elevata possibile. Le politiche scolastiche che i Paesi europei hanno introdotto dagli anni ‘50 in poi sono tutte mirate a questo obiettivo. L’evidenza su cui si basano è che, in media, le persone il cui percorso di studi è più elevato raggiungono una realizzazione economica e sociale più elevata.

è molto problematico fare comparazioni tra i vari sistemi scolastici sulla semplice base delle medie nazionali. Questa sembra invece l’abitudine che porta rinomati economisti come Boldrin a scrivere frasi del genere: “l’unico confronto rilevante è con sistemi altri e qui, quando confronto il sistema italiano a quello dei paesi europei avanzati o con quello USA, la differenza nei risultati si vede”. Sarà vero? Certo è che non lo si può inferire basandosi superficialmente sulle medie nazionali.

Analizzando i dati di PISA2012 si possono però avanzare altre interpretazioni. Per farlo in modo serio è necessario tuttavia considerare molte variabili che non sembrano interessare a chi troppo sbrigativamente strumentalizza le classifiche. È triste riconoscere che quest’abitudine è nel nostro Paese fin troppo diffusa tra politici e giornalisti.

Infatti, non è possibile valutare l’efficienza – in qualsiasi modo la si intenda – di un intero sistema educativo se non si tiene conto delle componenti da cui è formato, di come e dove queste interagiscono. Le più importanti sono: le condizioni socio-economiche dei contesti di partenza dei ragazzi, le variabili culturali, la struttura del percorso scolastico, i metodi e i programmi d’insegnamento e la qualità del corpo decente. Vediamo qualche esempio sulla base dei dati PISA:

– La differenza tra gli allievi del nord e sud Italia in “competenze matematiche” è maggiore di 50 punti, cioè superiore alla differenza tra le medie nazionali di paesi come Danimarca e Corea o come Svezia e Giappone. Se guardiamo ai risultati degli studenti italiani in regioni come Veneto e Friuli vediamo che sono tra i più alti a livello mondiale, vicini a quelli dei paesi asiatici. La spiegazione è banale, anche se non se ne tiene conto quando si propongono politiche educative: i contesti socio-economici influenzano i risultati negli studi e le loro decisioni nel proseguirli. Infatti, a parità di risultati ottenuti, è osservato che chi proviene da contesti economici svantaggiosi, in media, difficilmente prosegue gli studi verso una formazione universitaria.

– I risultati molto elevati delle medie nazionali della Svizzera sono dovuti, soprattutto, alle migliori condizioni di partenza socio-economiche dei loro alunni e a certe caratteristiche del sistema svizzero, come quella di escludere il più possibile i genitori dal valutare la decisione sul proseguimento degli studi. Il risultato di questa ultima caratteristica della scuola svizzera fa essere il sistema più omogeneo nei risultati scolastici. La presenza della famiglia in certe scelte scolastiche non permette sempre la valorizzazione delle potenzialità scolastiche del ragazzo.

– I risultati molto positivi della Finlandia sono dovuti a caratteristiche strutturali di quel sistema e non certo ad una sua intrinseca superiorità. La scuola finlandese è caratterizzata dal tentativo di arginare il più possibile un precoce fallimento degli alunni attivando molte classi di recupero e personalizzando i percorsi. Questo permette ai ragazzi di arrivare tutti a 15 anni con una preparazione molto simile. Inoltre il Basic Education Act del 1998 introduce una concezione della scuola molto vicina a quelle che l’Europa e l’OCSE vogliono imporre. Soprattutto nei test di lettura i ragazzi finlandesi hanno punteggi molto alti. Questo anche perché il finnico è una lingua che non presenta particolari problemi di apprendimento essendo caratterizzato da una corrispondenza molto forte tra grafema e fonema. Vi consiglio la lettura di una lettera firmata da 200 prof. finlandesi che commentano i risultati della Finlandia nei test PISA.

– I risultati molto elevati dei paesi asiatici, Corea e Giappone su tutti, sono dovuti soprattutto al fatto che le scuole tendono a preparare gli allievi ai test del genere PISA, poiché sono previsti all’ingresso delle high-school (licei) e delle università nei loro rispettivi paesi. Il successo degli studenti a questi esami di ingresso alle high-school determina una classifica degli istituti e, di conseguenza, il loro riconoscimento sociale ed economico. Ne consegue che gli studenti sono ben preparati a questo tipo di verifiche e ottengono dei risultati eccellenti poiché, in quei sistemi, l’ingresso in una scuola riconosciuta di valore influisce moltissimo sul futuro successo economico e sociale dello studente. Inoltre, in Giappone e Corea la preparazione a questi esami è garantita da istituzioni parallele alla scuola che quasi tutti gli studenti frequentano. La giornata dei “poveri” studenti asiatici dura spesso sino a sera.

In conclusione, possiamo dire i test PISA non valutano il possesso di conoscenze specifiche in relazione al proseguimento degli studi e che i risultati migliori sono ottenuti, in linea generale, da quei sistemi che sono maggiormente in grado di limitare e circoscrivere le realtà scolastiche fallimentari. Una lettura sbagliata di questi test porta a produrre delle politiche di riforma dei sistemi non in linea con quello che essi realmente necessitano.

Tornando alla questione di fondo: a quale modello di educazione ispirarsi per riformare la scuola secondaria?

Quello che sta dietro ai test PISA è molto chiaro. Infatti, dire che la scuola deve sviluppare certe competenze in grado di far fronte ai cambiamenti del mondo globalizzato e consentire un facile inserimento nel mercato del lavoro non è, come sembra, una semplice frase di buon senso. È un’affermazione carica di significato sia pedagogico che politico.
Ma come si individuano le competenze fondamentali che l’alunno deve possedere per orientarsi nel mondo di oggi e di domani? Quali sono i requisiti necessari ad un giusto inserimento nel mondo del lavoro? È chiaro che per rispondere a questa domanda si dovrebbe innanzitutto definire cosa significhi il termine competenze e come sia strutturato il luogo in cui queste devono essere utilizzate. In quest’ottica le capacità dell’alunno sono viste solo in relazione ad una prestabilita idea di efficienza economica.

L’impostazione pedagogica che l’Europa intende raccomandare a tutti i Paesi dell’Unione è legata ad una concezione progressista anglosassone. I Paesi dove questa pedagogia regna sono gli USA, l’Inghilterra e i Paesi scandinavi. Dietro queste idee vi sono padri spirituali di tutto rispetto come il filosofo John Dewey; le riflessioni sullo sviluppo del bambino di psicologi come Piaget; e le proposte di riforma molto di moda oggi come quelle di Edgar Morin.

Questa concezione della scuola, o perlomeno l’interpretazione che viene fuori dai documenti dell’OCSE, insiste nel contrapporre conoscenze a competenze affermando che solo lo sviluppo di quest’ultime permetterà all’individuo una produttiva impiegabilità nel mondo del lavoro. Si nega che il fine della scuola secondaria sia quello di trasmettere il sapere, un sapere organizzato in discipline, e si pongono come finalità pedagogiche degli ideali sociali, economici e morali. Non si riconosce che il fine della scuola deve essere quello della formazione dello spirito del singolo individuo e che questo si deve raggiungere attraverso l’insegnamento di tutte le fondamentali discipline che si sono venute formando lungo la storia. Si oppone alla “fatica del concetto” e del rigore mentale il confrontarsi con pratiche e situazioni in cui l’allievo sarebbe più attivo. Si negano i capisaldi dell’educazione liberale – nel senso di educazione alla libertà – la quale accorda un valore supremo all’esercizio del pensiero e all’accesso alle grandi opere della cultura umana nella loro totalità (senza perciò un’insensata contrapposizione tra materie umanistiche e scientifiche).

A me sembra discutibile voler dare a ragazzi di 14-15 anni strumenti che possano loro garantire un inserimento in un mondo del lavoro pensato a tavolino. Questi strumenti dovrebbero essere formati nelle università o in altri istituti consacrati alla formazione di terzo grado, ormai sempre più irrinunciabile nelle nostre società. A questi percorsi i ragazzi dovrebbero giungere con una salda e articolata cultura di base, conoscendo i concetti fondamentali di ogni disciplina. Le competenze, se proprio piace questo termine, non sono sviluppabili senza solide conoscenze su cui farle fiorire.

Anche il nostro Paese sta soccombendo a questa semplicistica interpretazione della logica progressista, concependo la scuola come luogo ove si formano competenze direttamente utilizzabili nel mercato del lavoro. Questo non significa certo che la scuola secondaria italiana sia perfetta e non vada riformata. Tanti suoi punti critici e debolezze potrebbero essere citati e discussi.

Una conclusione a quanto detto potrebbe suonare così: lo stesso errore che la tecnocrazia europea compie in materia economica lo ripete in materia di educazione. Stessa medicina, fondata su una rigida e discutibile visione delle cose, imposta a malati che soffrono di patologie molto diverse. Inoltre, così facendo sembra non perseguire le vere finalità della scuola secondaria.

TAG: europa, riforma della scuola, test PISA
CAT: scuola

6 Commenti

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  1. Matteo Saini 9 anni fa

    Applausi, applausi, applausi.

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  2. Andrea Mariuzzo 9 anni fa

    Sono sostanzialmente d’accordo con l’idea di base per cui “le competenze, se proprio piace questo termine, non sono sviluppabili senza solide conoscenze su cui farle fiorire”. Trovo però un po’ ingeneroso chiamare in causa come corresponsabili dell’appiattimento della pedagogia di scuola secondaria pensatori che in realtà avevano ben altro in testa, specie il Dewey di “Democrazia ed educazione”, che caso mai si batteva proprio per il recupero dei percorsi di formazione come palestra per la cittadinanza democratica universale e si faceva critico dell’overspecialization dei programmi offerti agli studenti di prima generazione nei primi due decenni del Novecento.
    Rimarcare questo dato storico, in parte estrinseco alle opinioni del pezzo, mi serve anche per dire che secondo me nel rifiutare (giustamente) come fallimentare un progetto di sviluppo delle competenze privo di contenuti non bisogna eccedere all’opposto. E forse su questo alcuni capisaldi deweyani, a prescindere da quanto sia discutibile l’applicazione “radicale” della sua pedagogia, possono anche essere utili. in una società al nostro livello di sviluppo, lo studio post-secondario è una prospettiva largamente maggioritaria per gli studenti, e le scuole secondarie superiori devono sviluppare una componente orientativa e preparatoria rispetto a una scelta ancora aperta. Da questo punto di vista, l’efficacia di un percorso di apprendimento si vede anche da come, attraverso la coltivazione delle conoscenze, le esperienze di approfondimento, l’acquisizione del metodo sui contenuti, ecc., si sono sviluppati gli strumenti concettuali fondamentali per rendere il processo di ampliamento del bagaglio culturale e di affinamento degli spunti critici permanente.
    Posso fare esempi concreti dalla mia esperienza di commissario ai nostri esami d’ammissione: alla fine del liceo tanto studio rischia di essere inutile se il concorrente, magari imbottito di dati fondamentali e di spunti di riflessione pertinenti, non riesce a costruire un tema in cui gli argomenti hanno un ordine, la struttura argomentativa scorre, e le conoscenze (magari limitate, perché proprio quell’argomento si era studiato poco) sono messe a frutto per puntellare il discorso e non sono affastellate alla rinfusa. Generalmente il successo alla prova scritta sta proprio su questo discrimine. e in generale è buona cosa che sia così. il successo di un’esperienza scolastica si misurerà, in modo sempre più chiaro man mano che ci si allontana dalla maturità, dalla “corazza” di metodi di lavoro e curiosità vive che essa ha lasciato in eredità allo studente.

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    1. Lorenzo Ravaglia 9 anni fa

      Andrea, sono d’accordo con te. Infatti parlo di una tradizione progressista, individuandone i capisaldi (certo troppo sbrigativamente) in autori come Dewey, e poi parlo di interpretazione semplicistica della stessa. Forse hai ragione tu, sarebe meglio dire interpretazione radicale. Certo, non bisogna esasperare la specializzazione nella trasmissione dei contenuti. In questo ha un ruolo fondamentale la preaprazione pedagogica dei docenti e la loro capacità di dialogare come “squadra” al fine di proporre un percorso che non sia parcellizato ma, anzi, riesca a far scorgere delle possibilità di connessione fra i saperi. Nel tuo articolo infatti sottolinei l’importanza del far lavorare i docenti in maniera stabile. Per quello che riguarda la formazione di terso grado: è certo una prospettiva molto più generalizzata ma porta molto debolmente ad una reale mobilità sociale. I contesti di partenza economici e culturali di certe regioni (penso al sud chiaramente) “bloccano” i ragazzi nel proseguimento di studi. In breve: è certo che la buona istruzione (sopratutto di terzo grado, poichè quella di secondo, come tu dici, è sopratutto preparazione a quella di terzo) sia uno dei tanti fattori produttivi della crescita economica di un paese; ma è vero anche l’opposto: senza le condizioni economiche e sociali favorevoli i ragazzi, anche se la scuola dell’obbligo è gratuita e raggiungono risultati ottimi, tendono a non proseguire gli studi e rimanere nella condizione socio-economica della loro famiglia. Grazie per il commento. Un saluto

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  3. Sara Fumagalli 9 anni fa

    Pieno centro! Forse è per questo che non riesco ad entrare nel dibattito ‪#‎labuonascuola‬?! E’ la visione che manca (perché si cerca di mettere qualche toppa qua e là) o, in alternativa, è sbagliata dal mio punto di vista. Anche se l’argomento del pezzo era un altro, http://www.glistatigenerali.com/riforme_scuola/piu-merito-meno-luca/, volutamente provocatorio, alla base c’era un ragionamento simile. I fondamentali, insomma, che sicuramente coinvolgono poi anche il “merito” e come lo si intende.

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  4. mila-spicola 9 anni fa

    Carissimo,
    Parliamone. Si conoscenza, abilità e competenza ha scritto in modo eccelso Perrenaud. La base è la conoscenza, ma l’esercizio del pensiero critico, ad esempio è una competenza. La conoscenza è ricompresi nella competenza. Ma deve mirare a quella, se non è apprendimento mnemonico, senza esercizio di pensiero. Ciò che misura Pisa sono le competenze in comprensione del testo e il ragionamento logico matematico. Posso essere considerate in senso palliativo, certo, per orientarsi nel mondo. Ma considerarle in senso formativo: comprendere in testo e ragionare con logica matematica sono esattamente l’esercizio del dubbio, del metodo, della scienza. Che poi diventino o meno attrezzi di “utilità” materiale è una conseguenza. Questo non vuol dire elogiare in. Se è per se i Pisa. Ma ragionare per benino sulla formazione delle competenze. Facciamo l’esempio del l’analfabetismo funzionale: il 65 % degli italiani adulti sanno leggere ( cioè posseggono l’abilità) ma non comprendono e non sanno utilizzare in senso logico, cioè non San ragionare, intorno a ciò che leggono. La definizione scientifica è: non posseggono la competenza. Dunque parliamone per bene..ben vengano modalità di incrementare le competenze e anche di misurarle per poterle migliorare. Il senso del sapere, della conoscenza e del valore in se non ne subiscono menomazioni, se si coltivano le competenze. Ma se coltivi solo la conoscenza senza sviluppare la competenza, cioè il ragionare intorno, rischi di avere mnemonica della conoscenza, ma non comprensione e ragionamento.

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  5. mila-spicola 9 anni fa

    Scusami i refusi, ho scritto in fretta e con l’ipad.

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