La banalità del bello

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27 Novembre 2014

Oggi 27 novembre, un articolo di Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera” pubblicizza i risultati del lavoro sulle periferie sviluppato dal gruppo G124, un collettivo di giovani architetti voluto e sostenuto finanziariamente dal senatore a vita Renzo Piano per riavviare una riflessione progettuale sulle periferie.

Perché il problema delle periferie è che sono brutte.

Questo è l’assunto da cui parte il gruppo di lavoro – formato da 6 architetti, tre per genere, selezionati con un bando a cui hanno risposto in seicento (un po’ come il recente concorso per il catasto a cui per 140 posti hanno risposto in diecimila) – che ha come missione il “rammendo” della periferie italiane, da nord a sud. Non voglio entrare nel merito del lavoro – perché nonostante sia un architetto non è mio costume usare l’alzo zero con i colleghi –  ma riflettere sullo strategia retorica utilizzata per promuovere il progetto. Tutto il lavoro, presentato con un booklet scaricabile qui (il nome del link è tutto un programma), è intriso di metafore tessili. Come bravi sarti, il gruppo cerca di rammendare il tessuto urbano strappato, liso, sfrangiato affinché la tela metropolitana torni alla sua bellezza (e qua mi sorge il dubbio: ma allora la moda che vende a prezzi esorbitanti roba strappata non ha capito nulla?). Già in passato la metafora organico-clinica aveva sciorinato concetti come “Il corpo della città è malato, bisogna curarlo”, “Le periferie sono un cancro da estirpare”, bisogna “suturare il tessuto lacerato della città” e via dicendo. A supporto dell’assunto del senatore e del suo gruppo (“i ragazzi di Piano”), Gian Antonio Stella farcisce il suo articolo di citazioni in cui la periferia non solo è brutta, ma anche sporca e cattiva. Produce criminalità perché, come professava nel 1972 Oscar Newman con il suo defensible space, uno spazio configurato in una determinata maniera facilita l’insorgere di atti criminosi. Per rinforzare la veridicità di questo automatismo, Stella cita il vescovo di Locri – noto urbanista – che afferma come “ un ragazzo in un posto brutto è più facile che cresca brutto”. Non si capisce allora perché i più efferati crimini che hanno nutrito le pagine della cronaca nera italiana si siano svolti in posti bellissimi, abitati da persone “perbene”, ricchi di servizi e senza una cartaccia a terra. Penso a Novi Ligure, a Cogne, a Perugia e non riesco a capire come ancora oggi questa equazione “lombrosiana” – spazio brutto=persona brutta – eserciti un fascino così forte. Eppure non ricordo Bruno Vespa maneggiare un modellino del quarto piano del Corviale o di un ponte del Laurentino.

Certo la visione ideologica che ha partorito i grandi insediamenti residenziali italiani (e non solo) si è rivelata largamente fallimentare. Le cause non sono squisitamente architettoniche, bensì legate all’incapacità dei progettisti di sincronizzarsi con le reali capacità gestionali di una nazione in perenne emergenzialità. C’era la convinzione che le grandi narrazioni si sarebbero realizzate attraverso una società che abitava nuove realtà, generando nuove relazioni sociali e nuovi stili di vita. L’architettura era un medium potentissimo che traduceva prospettive e politiche dai piedi di argilla. Gli appartamenti sono stati occupati (talvolta da esponenti della criminalità organizzata), le urbanizzazioni (fognature, illuminazioni) mai completate, i servizi non sono entrati mai veramente a regime.

Ma la bellezza non c’entra nulla.

O perlomeno non è quella la miccia che ha innescato il degrado di determinate aree delle città, italiane soprattutto. Basti guardare le banlieues parigine immortalate nell’ormai storico film “L’Haine”: ci sono spazi, campi, strutture. Ma non è questo che condanna alla marginalità un giovanissimo Vincent Cassel, bensì gli sguardi che gli riservano i parigini di città quando “scende” in centro con i suoi compagni di scorribanda.

L’aspetto fastidioso, dunque, è che la bellezza diventa una parola d’ordine, un claim pubblicitario che permette di vendere l’ennesimo progetto basato sul solito equivoco che il degrado sia dovuto alla forma architettonica e che, quindi, solo l’architettura possa porvi rimedio. Ma la complessità contemporanea ha già dimostrato che non è così e che l’architetto taumaturgo non esiste, grazie a dio, più.

E che più che essere assetati di bellezza,  probabilmente, gli abitanti delle periferie sono affamati di cittadinanza.

TAG: architettura, città metropolitana, cittadinanza, metropoli, periferie
CAT: Architettura e urbanistica, Criminalità

3 Commenti

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  1. Alfio Squillaci 9 anni fa

    Le periferie sono affamate e assetate di tutto. Cominciamo a restituire ad esse un po’ di dignità estetica. Librino a Catania come le borgate romane sono inguardabili. E’ vero come diceva Marx che “un uomo afflitto dal bisogno non ha occhi per lo spettacolo più bello”, ma Renzo Piano quello può fare, e generosamente quello fa. Plaudire alla sua iniziativa è il minimo che occorre fare. Sono stati gli architetti e i politici a imbruttire le periferie? Qui c’è un architetto che fa il suo: ai politici il resto.

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    1. Marco Ragonese 9 anni fa

      E infatti, caro Alfio, l’articolo non mette in discussione la bontà dei risultati ma la banalità degli assunti, soprattutto quando questi riducono tutto al dato estetico. L’equazione lombrosiana funziona a livello comunicativo (perché se così fosse il figlio di una madre brutta che abita in una casa brutta sia già predestinato) ma nei fatti rischia di avere efficacia delle brioche di Maria Antonietta…

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  2. Andrea Silenzi 9 anni fa

    La pianificazione urbanistica è un determinante indipendente dello stato di salute (http://www.who.int/mediacentre/news/releases/2010/urban_health_20100407/en/). Non so se c’entri la bellezza o meno, e nemmeno mi interessa. Evidenzio come da il nostro Paese è passato dall’ospitare la civiltà che ha insegnato l’urbanizzazione al mondo e ha valorizzato l’agorà greca nella piazza medievale dei comuni all’essere schiava dei palazzinari, dell’urbanizzazione a macchia di leopardo dei centri commerciali e dell’abbandono dei centri storici.

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