Milano, 2016: dopo la città immaginata da Pisapia (#2)

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29 Aprile 2016

Testo Scritto con Chiara Quinzii

La prima parte del testo si trova qui.

 

Intermezzo: i Radicali (non politici)

A partire dagli anni Sessanta in Europa si assiste ad un estremo ripensamento dell’architettura e del suo ruolo nella società, attraverso il lavoro di giovani progettisti, che provano a spostare le coordinate di studio della materia. I più famosi sono gli Archigram, che pubblicano nove numeri di una rivista omonima, sparigliando totalmente le carte sul tavolo delle consuetudini di una professione millenaria: come architetti super-eroi (la copertina del numero 4 è emblematica), gli Archigram si caricano sulle spalle le implicazioni progettuali di un mondo in fermento verso il futuro; non è un caso che la rivista nasca nel 1961, nell’anno del primo volo nello spazio, riesca a dialogare con le forme di 2001: Odissea nello Spazio, del 1968, e si concluda pochi anni dopo l’ultimo allunaggio dell’uomo, nel 1972.
Nell’ancora omonimo libro del 1973, in cui gli Archigram provano a raccogliere il lavoro svolto fino a quel momento, Peter Cook scrive: This is consistent with our attitude towards change, and our mistrust of ‘definitive’ architecture. It is therefore a natural consequence that the notion of metamorphosis should recur so often, particularly in our more recent work.

 

Archigram n.4 e n.8. Il numero 8 è in concomitanza con la Triennale del 1968. (da The Archigram Archival Project)

Archigram n.4 e n.8. Il numero 8 è in concomitanza con la Triennale del 1968 (da The Archigram Archival Project)

 

In questa breve frase si può iniziare a comprendere la rivoluzione intrapresa dal gruppo inglese, sulla scia di quanto elaborato già a partire dagli anni 50 da Cedric Price: la distruzione del concetto di stabilità nell’architettura, sotto tutti i punti di vista (strutturale, funzionale, programmatica). Gli Archigram, e prima di essi Price, postulano un’architettura versatile, che fa degli usi temporanei la propria essenza: lo spazio architettonico diventa la realizzazione fisica di un programma funzionale in evoluzione, che si adatta ai cambiamenti continui della società, della sua economia, dei suoi usi e costumi.
Se, in effetti, la società contemporanea si evolve verso forme identitarie leggere, transitorie, come può l’architettura costruirsi attraverso la massa – stabile, pesante – dei materiali da costruzione propri della disciplina? Gli Archigram suggeriscono, attraverso una commistione folle di grafica, architettura, robotica, comunicazione, innovazione digitale, che un programma di eventi, di situazioni, di vicende, è la base di un nuovo approccio all’architettura.

Sul finire degli anni 60, molti studi di architettura italiani iniziano a lavorare su questi temi: sono gli anni dei Radicali e della fondamentale mostra al MOMA di New York, Italy, the new domestic landscape, nel 1972.
Sono gli anni di Archizoom e Superstudio, che raccontano, attraverso una serie di utopie disegnate, una architettura inedita, costruita attraverso installazioni temporanee e flessibili. La città di Archizoom, No Stop City, è una città costruita attraverso due piattaforme omogenee, il pavimento e il soffitto, di dimensioni infinite, nei quali le condizioni climatiche sono totalmente controllate artificialmente, permettendo una urbanizzazione leggera, fatta di tende, grandi mobili, elettrodomestici. E’ un’architettura svuotata di sé stessa (non esistendo più la costruzione), che trova il suo nuovo, vero, cardine nell’uso temporaneo dello spazio, di volta in volta allestito attraverso nuove disposizioni di oggetti, a seconda degli eventi che in un determinato momento vengono attivati, come proposto dagli architetti inglesi qualche anno prima.

 

Archizoom, No Stop City, 1970

Archizoom, No Stop City, 1970

Come vedremo di seguito, forse non è un caso che da qualche tempo a questa parte ci sia una sorta di riscoperta di Price, Archizoom o Superstudio (si vedano le mostra al PAC di Milano o al MAXXI di Roma): la crisi immobiliare, le tematiche del riuso, l’evoluzione della Società dello spettacolo raccontata da Debord, la presenza nelle sedi di decisione politica di persone istruite durante gli anni di più fervido sviluppo delle idee dei Radicali, hanno portato ad un ritorno delle idee prefigurate negli anni 60 e 70 e alla loro sperimentazione in ambìti reali, non solo teorici.

 

Dove ci troviamo, dunque: Pisapia

Pochi mesi dopo la vittoria di Giuliano Pisapia, il Comune di Milano ha definitivamente adottato il nuovo PGT, approvato durante la giunta Moratti.
Il documento cardine delle trasformazioni urbanistiche della città è diventato simbolo di un passaggio, spesso doloroso, tra formazioni politiche opposte: la giunta Pisapia si è trovata infatti un piano urbanistico con un processo lungo alle spalle (il progetto inizia nel 2007), ormai avviato verso le ultimissime fasi politiche di approvazione e pubblicazione; ne revoca la delibera di approvazione, rimettendo mano, parzialmente e per quanto sia tecnicamente possibile, al progetto.
Il nuovo piano prevede, in generale, una riduzione della possibilità edificatoria nella città, eliminando potenzialità di edificazione in alcune aree verdi e agricole e diminuendo l’indice di edificazione nella città consolidata; un aumento della quota di edilizia sociale nelle grandi aree di trasformazione; una connessione maggiore tra la rete di verde comunale e quella provinciale e regionale.

PGT Milano, 2012, estratto

PGT Milano, 2012, estratto

 

Il nuovo PGT è un esempio del lavoro svolto da Pisapia nei confronti di molti progetti urbani sulla città: ereditare il progetto dalla precedente giunta, modificarlo per quanto il processo lo permetta, portarlo a compimento nel minor tempo possibile con una gestione più ottimizzata.
Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, questo procedimento è stato “adottato”, per esempio, per Expo, Porta Nuova, Ecopass, BikeMi, Metropolitana 4 e 5, Darsena, Mudec: in alcuni casi si è trattato di gestire al meglio una logistica, come per Expo o Metropolitane; in altri casi si è cercato di apportare alcune migliorie, come per Ecopass; in altri casi, ancora, il progetto recepito è stato il cardine attorno a cui ruotare una comunicazione politica importante, come nel caso di BikeMi.

La giunta Pisapia, allora, ha attuato, per una fetta importante delle politiche urbane, come un gestore – competente, partecipativo – di politiche altrui, per le quali si è trovato, volente o nolente, a dover proseguire un processo già instradato su binari ben definiti. Ha svolto un compito di controllore, di finalizzatore di grandi visioni urbane (positive o negative), che hanno radicalmente modificato il volto di questa città.

Quando, invece, si è trovato a intraprendere progetti da zero, ha svelato volti assai differenti ma che, forse, possono ritrovarsi in un atteggiamento comune.

I concorsi di architettura

A partire dalla fine del 2013 la giunta di Pisapia bandisce cinque concorsi di progettazione che avviano una nuova metodologia all’interno di un processo che, per quanto difficoltoso e spesso facilmente aggirabile, si è rivelato (internazionalmente) una delle poche maniere per perseguire un’alta qualità architettonica.
I concorsi indetti (Padiglione per l’infanzia, Centro Civico, Cavalcavia Bussa, Piazza della Scala, Piazza Castello) propongono una tempistica in due fasi: una prima fase con richiesta di elaborati minima, necessaria a selezionare 10 finalisti; una seconda in cui si chiede un progetto più approfondito a fronte di un minimo rimborso spese e premi per i primi tre selezionati.
Questa tipologia concorsuale permette di limitare gli ingenti investimenti che necessita un normale concorso di architettura (anche per i progettisti), mantenendo un’ampia partecipazione, anche di studi non affermati, poiché sarà necessario dimostrare solo in seguito all’eventuale vittoria, la capacità tecnica di portare a termine il progetto così come d’obbligo per i progetti pubblici (numero di progetti costruiti, fatturato, numero dipendenti, ecc.). In questo modo si cerca di dare spazio anche alle nuove idee, e non solo all’esperienza, e far crescere giovani progettisti che potranno avvalersi dell’aiuto di uno studio più affermato, ma in un diverso rapporto di forza.
Si tratta di concorsi per piccoli edifici pubblici o per sistemazioni di spazi pubblici, che farebbero ben sperare nell’approccio alla progettazione di questo tipo di spazi: applicando il processo alla maggior parte dei luoghi pubblici della città, si otterrebbe un’elevata qualità urbana, un dibattito fra progettisti e cittadinanza, una crescita di qualità degli studi locali, che troverebbero molti sbocchi nella propria attività professionale.
Una giunta come quella di Pisapia, che dà al tema della partecipazione un ruolo cardine nelle sue politiche urbane, dovrebbe intendere come l’uso di una procedura come questa potrebbe essere il reale punto di rottura in una città che non ha mai amato i suoi spazi pubblici, o, meglio, non li ha mai curati così come ha fatto per quelli privati. Il successo clamoroso di piazza Gae Aulenti e della Darsena dovrebbe essere la conferma che si stia scoprendo un atteggiamento nuovo, anche a Milano: un uso più maturo degli spazi pubblici e una volontà forte di uscire dai recinti chiusi della proprietà privata.
Eppure così non è stato; a parte questi concorsi, del quale uno (Piazza della Scala) già ineffettivo alla nascita (si tratta solamente di un concorso di idee, senza cioè incarico al progettista vincitore e approfondimento del progetto), lo strumento concorsuale non è stato più adottato, con diverse conseguenze, che si possono ritrovare in due, piccoli, progetti simbolo: piazza Oberdan, in zona Porta Venezia, e via Conte Rosso, a Lambrate.

 

Piazza Oberdan, Dicembre 2015 (da account Flickr del Comune di Milano)

Piazza Oberdan, Dicembre 2015 (da account Flickr del Comune di Milano)

Sistemazioni di spazi pubblici di limitate dimensioni, ma legati a temi forti di riconoscibilità urbana (la prima è la copertura dell’Albergo Diurno e funge da snodo dell’asse Buenos Aires-Corso Venezia; la seconda, progettata da MM, è l’accesso a Via Ventura, nuovo importantissimo polo della Design Week – ossia uno dei luoghi dove Milano vende la sua capacità di design): senza alcun supporto, se non da parte della propria area tecnica, il Comune realizza due progetti che non hanno alcuna ambizione architettonica o urbana, se non quella di sistemare al minimo lo stato di fatto. Non ci sono spunti di riflessione su cosa voglia dire progettare uno spazio pubblico oggi o progettare quei due specifici luoghi e, quindi, non ci può essere un dibattito culturale su quanto costruito: le sistemazioni sono lì, realizzate, sottotono, senza scempi, senza lodi.

 

Via Conte Rosso, Marzo 2015 (da Google Street View)

Via Conte Rosso, Marzo 2015 (da Google Street View)

 

E’ quanto sta avvenendo, in maniera forse più grave, al Parco Trotter, uno dei gioielli nascosti della città: per 125 anni sede della società del trotto comunale, nel 1924 diventa un centro all’avanguardia per la cura della tubercolosi dei bambini, per poi trasformarsi in un complesso scolastico. Un luogo innovativo, dove lo studio, il tempo libero, la salute, il movimento fisico si mescolano entro un recinto verde e dove oggi si somma anche un mix di nazionalità dei bambini, che dovrebbe fare di questo luogo un esperimento sociale importantissimo nella città.
Versando da anni in condizioni pessime, il Parco Trotter avrebbe necessità di una visione ad ampio raggio, trasformando un luogo che spesso rappresenta le difficoltà dell’oggi (siamo in piena zona Via Padova), in uno spazio di opportunità del domani, ma a patto di costruire un progetto unitario, ambizioso, innovativo, sotto tutti i punti di vista: sociale, funzionale, politico e, soprattutto, architettonico.
Anche in questo caso lo strumento del concorso sarebbe il meccanismo base ma anche in questo caso si decide di procedere per pezzi, senza un reale progetto globale, con manutenzioni ordinarie e ambizioni bene espresse nelle immagini pubblicate dal Comune stesso.

 

progetto parco trotter 1 copy

Convitto Parco Trotter, 2012 (da pagina Facebook Comune Milano)

 

Le procedure

Abbiamo visto come la città di Albertini e Moratti sia una città che cala dall’alto, fatta di grandi interventi, attraverso i quali al privato è delegata una fetta importante di politiche urbane, senza che ci sia un effettivo riscontro nella città vissuta dagli abitanti, nelle realtà già presenti sul territorio, nei bisogni espressi da chi usa la città stessa.
Pisapia ribalta la procedura, almeno nelle intenzioni, costruendo un approccio che, nei cinque anni di governo, riesce effettivamente a portare nel vivo della discussione sulle trasformazioni urbane quella società civile tanto attiva nella città.
Lo fa proponendo bandi di riuso di strutture pubbliche, dialogando direttamente con i cittadini nei luoghi problematici, favorendo l’apertura di spazi, pubblici o privati, normalmente chiusi al pubblico.
E’ un approccio dovuto, principalmente, a quattro fattori:

  • la crisi economica e, soprattutto, immobiliare;
  • la necessità di dialogo con i principali interlocutori della propria base politica;
  • la necessità comunicativa di prendere le distanze dalle precedenti giunte;
  • una generale affinità con i temi espressi, negli anni 70, dai gruppi di architettura radicale.

In effetti assistiamo, nell’uso di queste procedure, al tentativo di far rivivere spazi sottoutilizzati, se non addirittura abbandonati, attraverso trasformazioni leggere, usi temporanei, flessibilità nei programmi.
Le cascine di proprietà comunale, che avrebbero dovuto essere un importante esempio da mostrare durante Expo (ma i cui risultati stentano ancora oggi a mostrarsi), sono state l’esperimento principale, attraverso le quali verificare attivazioni dal basso di funzioni legate al terzo settore: dopo un bando di interesse su sedici cascine, sono stati pubblicati bandi per concessioni di lunga durata delle cascine Monluè, San Bernardo e Cotica, assegnando poi anche la Sant’Ambrogio e le cascine Nosedo e casa Chiaravalle (confiscate ad attività criminali o liberate da occupazioni).
A questo lavoro sulle cascine si affiancano assegnazioni legate a tematiche culturali e “smart”: gli spazi di BASE, Mare a Milano, l’immobile di via D’Azeglio o la Casa degli artisti, per esempio.

Sono tutte assegnazioni in cui si ricerca un dialogo con associazioni radicate nel territorio o legate a tematiche culturali ampie e non solo residenziali. E’ un approccio corretto, che parte dalla considerazione che la città necessita, dopo il boom immobiliare legato alle residenze, soprattutto di prezzo medio e alto, di attività sociali, che arricchiscano la vita dei cittadini, che non trasformino la città in una specie di immensa periferia senza altre funzioni oltre a quelle abitative. E’ un approccio empirico, sperimentale, che contempla il fallimento come possibilità e la conseguente ri-formulazione dei programmi funzionali (come successo per Base, dopo il tentativo delle OCA).

E’, però, un approccio complesso, pieno di imprevisti e come tale molto labile, soprattutto se si pensa possa essere l’unico motore di sviluppo della città.

Da un lato le associazioni coinvolte sono spesso no profit, legate fortemente ad una base di volontariato: sono realtà con disponibilità economiche limitate, che richiedono un continuo reperimento di fondi e per questa ragione hanno spesso possibilità limitate, circostanziate alle possibilità del momento (di fatto Fondazione Cariplo è a supporto di molti di questi progetti).
Dall’altro lato le attività culturali sono legate a doppio filo a quella che con buona probabilità potrebbe rivelarsi una bolla immobiliare: parliamo soprattutto del co-working, oggi sulla bocca di tutti come soluzione alla frammentazione e difficoltà lavorativa, ma che in sintesi non è altro che una modalità di affitto, che ha una convenienza solo per lavoratori singoli o per rapporti lavorativi “orizzontali”. Chiunque volesse crescere, sviluppando anche solo una piccola impresa (dunque con rapporti “verticali” di dipendenza o collaborazione) vedrebbe subito alzarsi esponenzialmente i costi di affitto, ben al di sopra di quelli normali di mercato (in questo senso ci si chiede perchè il Comune di Milano finanzi economicamente le imprese che sviluppano co-working, senza pretendere il calmieramento dei costi, almeno). Le attività di co-working infatti, al di là degli aiuti comunali, sono in fortissima crescita, non solo a Milano, e sfruttano un meccanismo simile a quello dei posti letto per gli studenti universitari (problema per il quale da anni si cerca una soluzione): aumentare considerevolmente il ricavato di affitto di uno spazio, frammentandolo in tanti sub-affitti.
Non è, quindi, un caso che i Radicali italiani abbiano costruito quasi nulla: l’approccio al riuso flessibile e all’installazione transitoria porta a ragionare su tematiche allestitive più che costruttive: il dubbio, allora, è se l’allestimento effimero, che pure ha il valore di non lasciare i luoghi abbandonati ed iniziare ad immaginarne il nuovo uso, possa effettivamente essere l’unico immaginario sul quale costruire la città o se le basi di questo approccio non siano troppo instabili o troppo fragili per poter reggere lo sviluppo futuro di una metropoli come Milano.

I grandi progetti

In questo senso, allora, ci chiediamo se la giunta Pisapia abbia affiancato all’approccio leggero, una politica urbana più tradizionale, fatti di grandi interventi, pubblici o privati, che possano trainare anche iniziative dal basso, in un mix urbano capace di definire complessità e ricchezza nella città.

Ad oggi, però, non appaiono all’orizzonte progetti capaci di costruire nuovi brani di città di una certa portata: la trasformazione degli scali ferroviari, prevista tra i grandi “motori” del PGT, anche se se ne parla ormai da anni, è stata l’esempio di una incapacità di lavorare sulla grande scala, e soprattutto, di mettere a punto una visione forte (non si è trovato un accordo all’interno della stessa maggioranza).
Eppure si tratterebbe di un intervento lungimirante, capace di modificare radicalmente il volto della città, sfruttando le enormi potenzialità, non solo quelle edificatorie, ma, soprattutto, quelle legate ad una nuova mobilità, considerando l’effettiva possibilità di una nuova circolare attorno alla città. Questo permetterebbe anche il superamento di quella che è stata, storicamente, una barriera fra un dentro e un fuori della città, fra ciò che è considerato (non da tutti) centrale e ciò che è considerato periferico. Anche se gli usi urbani sono sempre più veloci delle scelte politiche – vedasi Fondazione Prada, Via Tortona e via Ventura, che sono già oltre l’anello ferroviario, per fare pochi esempi – il lavoro su questo limite porterebbe effettivamente ad una definitiva ricucitura fra le due parti di città.

 

Scalo di Porta Romana (da Google Street View)

Scalo di Porta Romana (da Google Street View)

 

Due progetti dalle possibili e importanti ripercussioni, sono andati perduti, nonostante, per entrambi, sussistessero progetti di alta qualità: la nuova Bovisa, progettata da quello stesso studio, OMA, capace di infiammare il dibattito culturale con la Fondazione Prada; il nuovo parco Forlanini, esito di un concorso internazionale vinto da un progettista di ottime capacità, il portoghese Byrne.
In entrambi i casi, l’ambizione iniziale di farne dei progetti iconici per la città, capaci di attrarre interesse, investimenti, opportunità, si è scontrata con un abbassamento delle aspettative: a Bovisa, che ha avuto un cammino tortuoso e impegnativo, ci si appresta a partire con le bonifiche di una parte dell’area, mentre del masterplan non se ne parla più; al Forlanini si è deciso di intervenire con operazioni di rammendo minime fra la campagna e il parco esistente, studiate insieme al Politecnico (che sta sempre più diventando il braccio progettuale del Comune, forse anche per evitare i concorsi), che porteranno alla costruzione di un ponte ideato e realizzato da MM (altro frequente progettista di spazi pubblici milanesi di scarsa qualità).
In questo caso, dismesso (anche per motivi economici) un progetto portatore di una visione a grande scala, si sarebbe almeno potuto lavorare attraverso concorsi di piccola scala (per esempio il ponte stesso, i percorsi pedonali, la segnaletica).

Rimane la grande area di Porto di Mare, più grande dell’area Expo, sulla quale hanno insistito per anni decine di progetti (tra cui un Europan vinto da giovani progettisti francesi), che non sono riusciti a svilupparsi fino alla effettiva realizzazione. Il Comune si è preso in carico la regolarizzazione di una situazione di abusivismo diffuso e la liquidazione dell’altro proprietario dell’area, permettendo dunque al processo progettuale di poter partire, anche attraverso la ricerca di fondi europei e il dialogo con le associazioni presenti tra Corvetto e Chiaravalle.
Il progetto risulta emblematico della maniera di procedere della giunta Pisapia: un piccolo passo alla volta, considerando la difficile situazione economica (sia delle casse comunali che degli eventuali investitori) e predisponendo un lavoro certosino e necessario di ripristino della legalità, per creare le premesse necessarie affinchè un progetto possa partire.
Il problema, però, si ritrova nelle tempistiche e negli sforzi fatti per arrivare al punto di partenza: ora, a cammino politico pressochè concluso, si è arrivati all’inizio della procedura progettuale, ma qual è la visione del futuro di questo luogo? Può bastare immaginare che sarà un programma legato ai temi dell’agricoltura, con poche residenze perlopiù sociali? O, ancora, il procedimento – corretto, addirittura ammirevole, ma lungo ed estenuante – poggia su basi labili, su binari non tracciati, tali per cui la prossima amministrazione potrà effettivamente ribaltare nuovamente le ipotesi in campo, lasciando ancora un vuoto di progetto?

La mobilità e l’edilizia sociale

I grandi progetti, dei quali la mobilità generale della città e l’edilizia sociale sono importanti capitoli, si dovrebbero rifare a quanto previsto nel PGT di Milano, unico documento che prefiguri il futuro di Milano nella sua interezza: qui erano previsti i motori della città stessa, grandi ambiti di trasformazione che avrebbero dovuto muovere Milano verso il domani, veicolando gli investimenti, i progetti, le aspettative e gli immaginari degli abitanti.
Abbiamo visto che non è stato esattamente così: più o meno consciamente l’ambizione è stata al ribasso, al corretto ma modesto. I grandi progetti urbani promossi dalla giunta Pisapia non esistono o sono solo in nuce, come scritto nel capitolo precedente. Il grande tema dell’edilizia sociale, modificato e accentuato, proprio da questa giunta, nel PGT, non ha prodotto o almeno progettato alcun intervento di rilievo: anche in questo caso si è messo mano ad una sistemazione dello stato di fatto (affidamento a MM della gestione degli immobili comunali, recupero degli edifici esistenti, studi per la trasformazione di alloggi sotto soglia, affidamento di alcune proprietà a realtà locali, sgomberi delle occupazioni, rinnovo dell’affitto concordato), ma poco è stato fatto per venire incontro, con nuove edificazioni, alla ingente massa di persone che ogni anno richiedono un alloggio sociale in affitto.

La mobilità, dunque, poteva essere uno dei grandi temi su cui lavorare, data anche la presenza di Expo, che avrebbe richiesto una logistica eccezionale, per evitare disagi ai turisti e agli abitanti.
La giunta Pisapia ha lavorato principalmente su tre aspetti:

  • metropolitane;
  • Ecopass – Area C;
  • BikeMi;
  • Car Sharing.

Fra questi, BikeMi ha trovato un eccezionale impulso dall’amministrazione cittadina: le stazioni di Bike Sharing sono più che raddoppiate (anche se ciò era stato in parte già programmato dalla giunta Moratti), creando una rete di servizio densa e capillare entro la cerchia dei viali delle regioni. I cittadini milanesi hanno risposto con grande partecipazione a questo tipo di mobilità, dando modo all’amministrazione di continuare un processo di crescita che pare, in alcuni casi, addirittura eccessivo nella sua così fitta presenza.
Ad ogni modo una presenza così massiccia ha cambiato il paradigma della mobilità ciclabile: da mezzo ricreativo, per passeggiate nel tempo libero, si è capito che, in una città piccola e piatta come Milano, la bicicletta è il mezzo più veloce per muoversi nella attività quotidiane (per esempio nel percorso casa-lavoro).
Il bike sharing ha, inoltre, costruito una sorta di abitudine alla condivisione di uso dei mezzi: grazie a questo sistema, infatti, la grande novità del car-sharing è stata metabolizzata in tempi rapidi e, anche in questo caso, con grande partecipazione dei cittadini. Ciò ha permesso di definire un nuovo modi di viaggiare nella città e, complice la crisi economica e dell’industria automobilistica, ha visto diminuire il numero di veicoli in città (anche se non è provata la correlazione).
Ci troviamo dunque di fronte ad una possibile rivoluzione nella mobilità, che privilegi gli spostamenti ecologici, diminuendo conseguentemente il carico di inquinamento, problema endemico e mai risolto della città.

Per fare questo, però, sarebbero necessari due interventi: la decisione, da parte dell’amministrazione, nella definizione dei bandi di gara per il car sharing, di richiedere solo auto elettriche; una progettazione, altrettanto fitta, dell’infrastruttura necessaria all’uso quotidiano del bike sharing, ovvero le piste ciclabili.
Le piste ciclabili sono un annoso problema a Milano, che anche questa amministrazione non ha risolto: dei 100 km in più di piste ciclabili ipotizzati a inizio mandato, ne sono stati costruiti circa la metà (trovare i dati è piuttosto difficoltoso, quindi possono esserci degli errori di valutazione). Come si può vedere dai grafici più sotto (desunti dalle mappe delle piste ciclabili del 2010 e del 2015, fornite dal Comune), le ciclabili realizzate sono perlopiù rammendi di pezzi non comunicanti di piste esistenti, mentre quelle in progetto hanno una visione leggermente più ampia e cercano di mettere in connessione luoghi a scala territoriale.
Il risultato finale, comunque, è ancora frammentario: sono pochissimi i percorsi lunghi e continui nella città. Ciò è paradossale, considerando il successo di BikeMi, ed estremamente pericoloso, perchè potrebbe avere ripercussioni proprio sull’uso del bike sharing stesso.
Non è un caso, allora, che i nuovi BikeMi per i bambini, saranno collocati solo nei parchi o in prossimità degli stessi: l’amministrazione stessa considera pericoloso per i bambini muoversi all’interno della città.

Piste ciclabili a Milano (elaborazione su mappe del Comune)

Piste ciclabili a Milano (elaborazione su mappe del Comune)

 

Piste ciclabili a Milano al 2011 (elaborazione su mappe del Comune)

Piste ciclabili a Milano al 2011 (elaborazione su mappe del Comune)

 

Piste ciclabili a Milano realizzate fra 2011 e 2015 (elaborazione su mappe del Comune)

Piste ciclabili a Milano realizzate fra 2011 e 2015 (elaborazione su mappe del Comune)

 

Piste ciclabili a Milano in in progetto/costruzione 2015 (elaborazione su mappe del Comune)

Piste ciclabili a Milano in in progetto/costruzione 2015 (elaborazione su mappe del Comune)

 

D’altronde, anche in questo caso, manca un atto radicale di progettazione innovativa: se con Moratti il rifacimento di un asse fondamentale come Corso Buenos Aires non ha previsto in alcun modo la presenza di una mobilità alternativa all’auto, con Pisapia il nuovo Viale Abruzzi (progetto MM), che avrebbe potuto diventare un manifesto programmatico sul disegno delle sezioni urbane e dei suoi famosi viali alberati, è diventato una sorta di autostrada a otto corsie, dove non solo non è prevista la presenza della bicicletta, ma anche l’attraversamento pedonale è diventato più difficile (e ciò nonostante il PGT preveda che lo stesso viale sia un tratto importante dell’anello verde dei viali delle Regioni).

Corso Buenos Aires

Corso Buenos Aires (da Google Street View)

 

Viale Abruzzi (da Google Street View)

Viale Abruzzi (da Google Street View)

 

Il ring delle regioni, estratto da PGT MIlano, 2012

Il ring delle regioni, estratto da PGT Milano, 2012

 

, estratto PGT Milano, 2012

I grandi progetti di interesse pubblico, estratto PGT Milano, 2012

 

Milano, a vent’anni da Pisapia

E’ parso, insomma, che Pisapia si sia mosso come un oculato amministratore, un “buon padre di famiglia”, che tenta di riparare, ottimizzare e recuperare quanto fatto dalle precedenti amministrazioni, cercando di avviare dei processi bottom up, che possano risvegliare una sorta di coscienza civica nei cittadini, affinchè loro stessi diventino gli attori principali nella cura della città e del suo territorio.
Dopo le visioni post-moderne fatte di grattacieli di cristallo e gli ambiziosi, ma infondati, progetti di crescita urbana (incontrollata), è sembrato di scorgere un appello ad una sorta di sobrietà, di puntigliosità, di correttezza istituzionale.

Come per alcuni buoni padri di famiglia, però, è mancato un anelito, seppur visionario e magari irraggiungibile, verso un futuro innovativo per questa città.
In questo momento, infatti, stiamo godendo di una concatenazione di effetti che non è detto siano duraturi. Anzi, possiamo sicuramente dire che non saranno duraturi se non verranno continuamente messi in discussione e rinnovati.
La politica di Pisapia, dunque, è apparsa conservativa, magari necessaria, come un periodo di depurazione post-sbornia, ma dovevamo aspettarci, almeno nelle fasi finali del suo lavoro, la concretizzazione di progetti di più ampio respiro, capaci di svilupparsi nei prossimi anni.
Così non è stato, lasciandoci dunque il dubbio che i semi piantati da questa amministrazione siano pochi, forse preziosi, ma fragili, probabilmente privi della capacità di veicolare una visione a grande scala capace di disegnare la Milano dei prossimi 20 anni.

 

L’immagine di copertina è di Gilberto Gaudio.

TAG: Bikemi, Cultura, dopo-pisapia, milano, PGT Milano, Pisapia
CAT: Architettura e urbanistica, Milano

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