La satira non offende mai. E contro Dieudonné basta la libertà di espressione

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17 Gennaio 2015

C’è un criterio di demarcazione per stabilire cosa è presa in giro, e cosa non lo è? O, con più riferimento all’attualità: cosa è satira, cosa è offesa? Un aspetto cruciale della questione risiede nel rapporto tra autore e destinatario della presa in giro: tra amici si scherza, ci si sfotte, perché preventivamente c’è un rapporto di fiducia. Uno ‘stronzo’ detto al compare di birre ha un significato diverso dallo stesso epiteto rivolto all’automobilista che ci taglia la strada.

Il funzionamento di uno stesso segno, in una comunicazione, varia col variare del contesto, come insegnava Karl Bühler. Un requisito fondamentale per il funzionamento della presa in giro è che ci sia un contesto di “sospensione preventiva” delle soglie oltre le quali facciamo scattare reazioni difensive. Accettiamo di disattivare le nostre difese, perché ci fidiamo dell’autore della presa in giro – è un amico, sappiamo  per esperienza che non ha cattive intenzioni, e non ci vuole danneggiare – o perché abbiamo la certezza che è fine a se stessa. E’ questo il caso  della satira: la sua assenza di scopi reconditi a parte quello del divertimento è dichiarata e istituzionale, perciò il bersaglio, pur pubblicamente oggetto di sberleffi, può stare tranquillo, non vi saranno conseguenze.

C’è un altro aspetto da rilevare. E’ poco plausibile ritenere che la credibilità di una persona o magari di alcune convinzioni e dottrine religiose, possa essere seriamente intaccata da una vignetta o da una battuta, quale che sia il suo grado di volgarità. Com’è noto, di solito gli insulti sono il sostituto dell’assenza di argomentazioni, e rafforzano i convincimenti, e perfino l’immagine degli insultati. Ciò che fa la satira è evidenziare debolezze, meschinità ed egoismi di persone e comportamenti, che sono dati più o meno noti prima a prescindere dalla burla.

Per questo è facile prendere in giro le religioni e i religiosi, così come i seguaci di qualche ideologia laica ‘rivelata’, con i loro talvolta bizzarri divieti e prescrizioni, i loro comportamenti stereotipati e la loro assurda pretesa di affermare verità intoccabili, a cui si deve aderire ciecamente, rinunciando al senso critico. Provate a sfottere uno scienziato o una teoria scientifica. Lo potete fare: ma è difficile che ciò susciti reazioni negative, o tentativi di censura. La credibilità del soggetto o della teoria non ne risentirà, se non altro perché è già sottoposta al fuoco di fila costante di obiezioni della comunità scientifica.

Si possono dunque fare due considerazioni. La prima: al di là delle disquisizioni sulla “libertà di espressione”, non ci sono motivi oggettivi per temere la satira. Chi ne è oggetto e la considera offensiva è probabile debba fare i conti con se stesso, e esaminare lo stato di salute della propria credibilità. Si potrebbe rivendicare il diritto a non essere offesi, ma qui entra in gioco il primo aspetto di cui sopra: la funzione della satira dipende dal contesto di scherzo, di gioco senza conseguenze. Lo stato di diritto, che garantisce la libertà, protegge l’individuo dagli abusi e dalle violenze effettive, non dagli scherzi.

L’altra considerazione riguarda invece la credibilità del burlone. Anche quel mestiere, infatti, non è esente dalla necessità di conquistarsi il rispetto degli altri. Ci sono i cattivi comici e satirici, che non ci riescono perché non hanno talento. E ci sono i falsi comici, che utilizzano la satira per secondi fini, per esempio di propaganda, o di interesse personale. Può darsi che abbiano successo, ma prima o poi lo scopo nascosto viene a galla, e il pubblico smette di ridere. Accade quando il pubblico si accorge che è venuto meno il contesto di autoreferenzialità dello scherzo che, come si è visto, è una condizione per il suo funzionamento.

Un esempio di satira strumentale, e quindi di ‘falsa satira’, sono le iniziative contro gli ebrei del comico francese Dieudonné M’bala M’bala. Se ne percepisce chiaramente il secondo fine: la propaganda politica antisemita. Viene così meno ‘la dimensione dello scherzo’, il gesto comico diventa veicolo per promuovere l’odio razziale contro gli ebrei, esercitando un ricatto morale sul pubblico: se non l’accetti, mi vuoi tappare la bocca, sei uno che nega la libertà di espressione.

Ma il ricatto non si neutralizza mettendo a tacere il ricattatore, e dunque cadendo nel suo trabocchetto. Come ha affermato Simona Bonfante, si rischia solo che Dieudonné si faccia Charlie, che colui che detesta la libertà venga elevato a suo martire. Per rendere i Dieudonné inoffensivi è controproducente e non necessario ricorrere a deroghe alla libertà di espressione, basta farla valere svelando i loro trucchi. Basta ricorrere al metodo Charlie, quello su cui si basa la satira autentica, che rende pubbliche, senza alcuna pietà, con una battuta o un tratto di penna le grettezze, le ipocrisie e le cattive intenzioni.

@leopoldopapi

TAG: charlie hebdo, Dieudonné, libertà di espressione, satira
CAT: discriminazioni, Media, Religione

Un commento

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  1. andrea.gilardoni 9 anni fa

    Grazie dell’articolo, che ho letto con piacere. Ho però provato a replicare, sostenendo che, invece, la satira offende: http://www.glistatigenerali.com/filosofia/la-satira-offende/ O, almeno, può farlo…

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