Vanni Santoni: con Italo Calvino ci sono cresciuto

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23 Settembre 2015

Prosegue il dibattito attorno all’eredità culturale di Italo Calvino a trent’anni dalla sua morte. Dopo l’intervista a Nicola Lagioia, Chiara Valerio, Francesco Pacifico, Giovanni Montanaro e Rossella Milone ora è la volta di Vanni Santoni.  L’autore di Montevarchi ha da poco pubblicato il suo ultimo romanzo Muro di casse (Laterza, 2015) ed ha fondato nel 2007 con Gregorio Magini il progetto SIC di scrittura creativa che ha portato alle stampe il romanzo In territorio nemico (Minimum Fax, 2013).

Quale l’eredità più preziosa lasciata alla letteratura italiana e anche a disposizione dei narratori italiani da Italo Calvino?

Mi piacerebbe poter dire di non essere erede di Calvino: dico questo perché con Calvino ci sono cresciuto, mio padre ne era appassionato e a dodici anni avevo già letto tutti i suoi libri, ma quando a ventisei ho inaspettatamente deciso di dedicarmi alla scrittura ho guardato deliberatamente altrove in cerca di maestri. Si dice che in letteratura i padri non funzionino e si lavori sempre per zii o per nonni, e anch’io nella prima fase della mia ricerca – non più da lettore ma volta allo scrivere – sono andato a cercare in un passato più remoto – 80, 160 anni prima di me – o molto lontano geograficamente.

È naturale che poi sia tornato in Italia, troppi erano i buchi da tappare nella mia preparazione, che era abbastanza vasta ma sviluppata in modo disorganico; tuttavia, nonostante il grande amore infantile per Calvino, non l’ho mai più sentito, né l’avrei mai citato, tra i miei padri spirituali. Tuttavia, se poi vado a guardare quello che ho scritto, è facile notare come la struttura alla base di Personaggi precari non venga da altro che da Le città invisibili – quando, nel 2004, cominciai quel progetto, non conoscevo né Vite di uomini non illustri di Pontiggia, né Centuria di Manganelli, né tantomeno Lo stereoscopio dei solitari e La sinagoga degli iconoclasti di Wilcock, tutti libri che successivamente sono stati accostati a Personaggi precari per le molte analogie strutturali – e in effetti Le città invisibili, sia pure viziate a volte (ma meno degli altri libri di Calvino) da una nota di pedanteria, rimangono ai miei occhi un punto di riferimento e un capolavoro che non smette di assillarmi, per la struttura, per la vertigine filosofica e geometrica, per il modo in cui dialoga a largo spettro con Eliot, con Borges, con lo stesso Wilcox (e di conseguenza con Bolaño), ma soprattutto per la compiutezza del suo contenuto: non posso dirmi affrancato da Calvino già considerando che mi sono scoperto a usare un estratto dalle Città come esergo di Se fossi fuoco arderei Firenze – ma quello è il meno, dato che in Terra ignota le Città invisibili fanno addirittura parte della narrazione: tra gli eventi che aprono il libro vi è la distruzione delle medesime da parte dei cavalieri del Cerchio d’Acciaio, i protagonisti del romanzo si trovano poi ad attraversare le loro rovine, e l’intera scena finale è ambientata in una di esse (la quale finisce, poi, rasa al suolo come le altre).

Una simile scelta, oltre che essere un omaggio al Calvino maestro dell’ibridazione tra fantastico popolare e fantastico speculativo e ‘alto’ – penso ovviamente anche agli Antenati, in particolare Il cavaliere inesistente e Il visconte dimezzato, che da piccolo mi segnarono molto – che è stata uno dei punti di riferimento chiave nel lavoro su Terra ignota (testo che peraltro non poteva prescindere da Calvino anche per il suo essere denso di riferimenti ariosteschi), deriva anche dalla necessità di affermare, almeno simbolicamente, un fatto: le Città invisibili, nella loro perfezione, possono solo costituire un punto d’arrivo per il fantastico italiano, e per ripartire serve una tabula rasa.

Questo per quanto riguarda il mio percorso personale, che è l’unico che conosco a sufficienza per poter effettuare valutazioni certe. In termini generali, e al netto dei sicuramente molti scrittori italiani contemporanei che, come me, hanno trovato e proficuamente sfruttato ‘il loro Calvino’, mi sembra che la sua eredità – senza colpe da parte sua, beninteso – sia fatta di ombre e luci: in nome della sua idea, opportunamente fraintesa, di ‘‘leggerezza’’ si sono infatti consumate molte delle peggiori abiezioni della narrativa italiana recente.
Dove la scrittura di Calvino ha più saputo incidere nella società italiana?

Non sono sicuro che la scrittura – di Calvino o chiunque altro –, presa da sola, possa incidere nella società. Le singole opere contribuiscono a creare una temperie, e poi quella temperie si riflette nella società, ma in un modo che rende impossibile tracciare responsabilità e meriti precisi rispetto ai singoli autori.

Quale lascito di Italo Calvino risulta oggi invece un fardello insostenibile dagli scrittori e in generale a quale peso costringe un intellettuale che è stato così determinante nella vita culturale italiana e internazionale?

Non mi pare ci sia nulla di particolarmente insostenibile in Calvino o in chiunque altro, per il semplice fatto che se un autore scrive seriamente, allora si confronta sempre – da perdente – con i classici: insostenibile è tutto, ovvero niente. Per quanto mi riguarda, rispetto ai miei obiettivi trovo più ‘insostenibili’ altri magisteri, a causa del loro tasso tecnico: penso a quello di Malaparte per la prosa, a quello di Calasso per l’intertestualità, a quello – ancorché poetico – di Zanzotto… Ma, di nuovo, sono considerazioni che hanno poco senso, credo che l’unica cosa che si debba fare da scrittori sia stare a testa bassa a leggere e a scrivere cercando di metterci tutto l’impegno possibile e chiusa lì: già riuscire a stare al cospetto dei padri senza essere annientati dalla vergogna sarebbe un risultato assolutamente eccellente. Di giganti da cui farsi schiacciare, se per caso se ne sente l’esigenza, ce ne sono quanti ne vogliamo, e anche di stazza ben superiore: come si deve rapportare lo scrittore italiano con Boccaccio? Con Dante? Con Leopardi? L’unica è prenderli per quello che sono: gli artefici, anzi gli elementi, del panorama stesso in cui ci si trova a muoversi e lavorare.

La letteratura è oggi davvero totalmente periferica al dibattitto pubblico? O dopo Calvino c’è ancora possibilità di costruire un percorso letterario identitario e reputazionale?

Esagerando un poco, ma neanche troppo, si potrebbe dire che i lettori di narrativa contemporanea sono arrivati a essere non solo una nicchia ma addirittura una subcultura, e tanto basterebbe.

Non si può però negare che ci siano anche delle ragioni strutturali per la situazione attuale: lo spazio che hanno gli scrittori sui giornali maggiori, per non parlare degi altri media, sono relativamente ridotti, e anche quando se ne incontrano, la sopravvenuta legge della supremazia del venduto fa sì che vi si vedano autori midcult più spesso di altri più ‘letterari’, e se questo si combina col sempre minor spazio che hanno in generale i libri sui media (pensiamo anche alla sostanziale esclusione dei critici di professione dai medesimi), l’effetto di ‘perdita di peso relativo’ degli scrittori è inevitabile. Per fortuna però la letteratura è qualcosa che agisce anche sul lungo periodo, da sempre esiste un flusso che porta alla sommersione di tanti autori magari celebrati in vita, e alla successiva emersione – e radicamento nel canone e nella coscienza collettiva di una società – di altri che non avevano conosciuto enorme successo, o lo avevano conosciuto solo tardivamente, o che erano passati addirittura inosservati. Dunque, di nuovo, se si prende sul serio la letteratura, testa bassa e scrivere, senza stare troppo dietro a questioni come la presenza nel dibattito pubblico, l’accettazione immediata da parte del pubblico, il venduto, i premi: se ci sono, meglio, ma per il resto non devono riguardare un autore che prenda sul serio il proprio lavoro.

 

TAG: Italo Calvino
CAT: Letteratura

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