Così Milano è tornata ad essere “la città che sale”

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17 Maggio 2015

Umberto Boccioni ha dipinto La città che sale a cavallo tra il 1910 ed il 1911. Il titolo originale del dipinto, che rappresenta una visione di Milano, era Il lavoro. Distante da una rappresentazione naturalistica del paesaggio, al centro dell’opera non vi sono i cantieri e le ciminiere tipici delle periferie urbane, ma uomini e cavalli in movimento. La formula della citta che sale è stata recentemente utilizzata da Irace (Il Sole24Ore, 3 Maggio 2015) per rappresentare la Milano verticale delle nuove realizzazioni urbanistiche e dei molti cantieri appena conclusi.

Dal mio punto di vista, invece, si tratta di una formula efficace per ben catturare alcuni dei processi sociali, culturali ed economici che da qualche tempo attraversano la città e che hanno trovato solo una rappresentazione estemporanea e frammentata nel discorso pubblico, e in quello politico in particolare. Radicalizzando la tesi che voglio sostenere, si tratta di fenomeni che possono rappresentare il nocciolo di un progetto propriamente politico di sviluppo urbano, economico, sociale e culturale della città per i prossimi anni. La città verticale dei grattacieli e dei nuovi processi di ri-generazione urbana è solo lo sfondo di questo disegno, al centro, come motore della trasformazione, e come in Boccioni, ci sono gli uomini e i cavalli (strumenti tecnologici, relazionali, flussi di persone e di conoscenza).

Il background di partenza di questo disegno devono essere gli anni della crisi e la reazione del tessuto economico e sociale a un cambiamento non contingente. L’ipotesi è che seppur la città non sia stata risparmiata dall’asprezza della crisi economica, in questi anni il tessuto cittadino abbia saputo fornire una risposta propria, dando vita a nuove configurazioni produttive urbane abbozzando nuove forme di socialità e comunità. Il tutto fa leva su risorse di sapere, economiche e sociali endogene al territorio. A ben vedere qualcosa di simile a quanto avvenuto nell’ultimo secolo e mezzo ad ogni passaggio cruciale dell’industrializzazione della città, con le sue conseguenze di smottamento e di riconfigurazione degli assetti sociali.

Questi fenomeni emergenti, però, sono ancora sottorappresentati nel discorso pubblico ed hanno trovato spazio più nel policy making e nelle pratiche amministrative quotidiane, che nella costruzione di un quadro di senso più propriamente politico. Ancora meno si è ragionato intorno all’esistenza o meno, di ceti emergenti e soggetti sociali portatori di queste istanze di “innovazione inclusiva” degni di essere destinatari di un progetto politico. Credo che sia giunto, invece, il momento di farlo. Abbiamo impiegato molta parte del nostro sforzo di amministratori di questa città nel costruire, e giustamente!, politiche difensive che provassero a mettere argine all’aumento della povertà, delle disuguaglianze, dello sfaldamento delle relazioni di comunità. Credo che in buona parte quelle politiche siano state efficaci, infatti siamo il Comune che si è inventato e ha finanziato diversi “pacchetti anticrisi”, abbiamo sperimentato il microcredito, l’anticipo della cassa integrazione, l’accoglienza per i più deboli e per i migranti, incrementato i ricoveri per i senzatetto, messo mano ad una disastrosa gestione delle case popolari, creato l’agenzia sociale per la locazione e potrei andare avanti a lungo.

Le minacce sul fronte della coesione sociale, delle disuguaglianze, della povertà crescente, non sono alle spalle. Ma come sempre è stato nella storia della città, dai tempi dell’Umanitaria e delle prime mutue operaie, progresso e inclusione sociale e sviluppo economico, che oggi vogliamo sostenibile, viaggiano su binari paralleli. Ho indicato spesso in passato il binomio “innovazione ed inclusione” per alludere ad una Milano IN, non quella “da bere”, ma quella più vicina al miglior spirito riformatore della sua storia, e che oggi è animata da una classe media non standardizzata, ma plurale e pluralista, tendenzialmente attrezzata culturalmente, che vive di redditi (a volte intermittenti) da lavoro e non di rendite (né immobiliari né finanziarie), popolata anche di milanesi non per nascita ma per scelta, che ha poco da perdere e vorrebbe liberarsi delle sue catene. “Innovatori per disperazione”, li ha definiti qualcuno, interessati a guadagnare spazio individuale e collettivo sulla scena pubblica.

E’ “La città che sale” la vera protagonista di questa primavere milanese 2015 in cui sembrano sbocciare tutti insieme gli spazi di iniziativa civile ed economica che l’amministrazione Pisapia ha contribuito a “liberare” chiudendo un ciclo politico, e probabilmente economico, ventennale. Non solamente una città di servizi o di nuovi progetti di urbanizzazione, ma una città capace anche del ri-uso, nuovamente e diversamente manifatturiera, in cui anche la distribuzione delle merci e dei prodotti (alimentari e non) sta cambiando mettendo in crisi il sistema della grande distribuzione, enfatizzando i processi di customizzazione dei prodotti, riproponendo un settore agroalimentare tecnologicamente avanzato come possibile sbocco lavorativo per i giovani. Re-insediare la nuova manifattura in città per me è parte di un vero e proprio programma politico per Milano e non è affatto velleitario: sta già succedendo come è successo a NYC e in altre aree urbane avanzate. Penso alla manifattura digitale, alle bio tecnologie, alle nano tecnologie e all’industria creativa.

Siamo l’ unica città che ha costruito politiche ad hoc per accompagnare questi processi, dall’accompagnamento alle imprese innovative agli investimenti sulla manifattura digitale nei makerspace e fablab, passando per la sharing economy, o economia collaborativa. Penso che nel prossimo futuro bisognerà ragionare anche su una fiscalità dedicata per le manifatture innovative, in città e nel paese da mettere esplicitamente in connessione con altre due “industrie” meritevoli di politiche ad hoc su scala metropolitana: l’industria scientifica e quella culturale e creativa. Entrambi settori in evoluzione, attrattivi in misura diversa di flussi di persone e investimenti, alimentatori di quei “ceti dinamici” di cui si è detto, auspicabilmente protagonisti della riflessione sul “post-Expo”

Un disegno politico che metta al centro l’innovazione capace di produrre inclusione, che guardi alle nuove configurazioni produttive e non alle rendite vecchie e nuove, che sia capace di intercettare la città che sale invece che contendere il solo consenso della città che è già salita, non può che essere un disegno che rivendica la necessaria autonomia di Milano dal quadro politico nazionale e da equilibri altrove definiti. Ma soprattutto deve essere allo stesso tempo un disegno sociale e un disegno politico, ovvero non può perdere di vista il destinatario e l’interprete sociale di un desiderabile progetto di città, proponendo, certo, un sistema di opportune alleanze sociali e politiche ma rigettando la separatezza dei luoghi della decisione politica da quelli che stanno animando il risveglio civile della città. In questo consiste la continuità auspicabile con la migliore esperienza amministrativa di questi anni.

 

TAG: cristina tajani, fulvio irace, la città che sale, milano, umberto boccioni
CAT: Milano

Un commento

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  1. alessandro-rotilio 9 anni fa

    Ha ragione Cristina Tajani. A Milano è in grande fermento il mondo delle startup e delle innovazioni sociali. Innovazioni operate da milanesi per scelta che però spesso finiscono per aprire una limited a Londra (è anche questa una fuga di cervelli). Questo mondo sperimenta l’inclusione come dato di fatto e resta focalizzato sulla produzione di valore sociale ed economico. Paolo Fareri, urbanista milanese, diceva che Milano ha smesso di Innovare quando non è più stata in grado di guardare la diversità. Credo che oggi l’inclusione sia tornata a germogliare anche grazie al lavoro fatto da Cristina Tajani, ma adesso la sfida è governare e AIUTARE l’innovazione. Purtroppo i fiorire di incubatori è stato anche un fiorire di burocrazia, lentezze ed esclusioni. Una selezione dei più forti anziché delle migliori idee. È da qui che bisogna ripartire, con il modello delle startup americane, dove sono più i talenti che i business plan a guidare gli investimenti.

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