“Lo Stato Sociale è a Sanremo, ed è giusto così.” (Lettera aperta)

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6 Febbraio 2018

Lo Stato Sociale è a Sanremo, e io ne sono estremamente felice.
Nel 2012 li sentivo a Zam (ndr, Centro sociale di Milano) insieme ad altri 100, mentre oggi – a sei anni di distanza – li vede suonare in eurovisione pure mia nonna. Ancora non mi sembra vero, e la cosa mi inorgoglisce, perché li ho visti crescere musicalmente e credo proprio che questo traguardo se lo meritino: insomma, non sono lì per caso.

Quando sono usciti i nomi degli artisti in gara, una cascata di letame è stata scaricata sulla band bolognese da coloro che si considerano i puristi della musica indie italiana. 
Ma perché tutto questo odio nei loro confronti da parte di quella galassia di micro pagine e gruppi Facebook che si arrogano il diritto di poter definire ciò che musicalmente è bello e puro, e ciò che non lo è? 
Probabilmente alla base di questa ostilità  vi è una sensazione di tradimento, ma io non ho ancora ben capito da che cosa sia scaturita questa immotivata avversione nei loro confronti. 
Si accaniscono come se Sanremo fosse ‘Il Male’, come se Sanremo potesse snaturare un gruppo o un artista. 
Mi son sentito ribattere che è già qualche anno che si sono snaturati perché mettono le frasi sdolcinate nei post di Facebook per strizzare l’occhio al pubblico dei cosiddetti ‘bimbiminkia’: ma questo fa parte della giostra. 
Inoltre non sono di certo i primi, provenienti dal mondo della musica indipendente – o alternativa, che dir si voglia – a calcare il palco dell’Ariston; come non ricordare la partecipazione degli Afterhours, Jannacci, Bluvertigo, Subsonica, Vasco rossi, Elio e le storie tese, e di molti altri.

Mi sono sentito poi dire che ‘se sei una band che ideologicamente va controcorrente, o che comunque tende ad esserlo, non puoi partecipare a Sanremo che è espressione del capitalismo’. 
Bene, allora spiegatemi cos’ha Sanremo di più capitalistico di Spotify, di iTunes, del fare gli instore, ecc. Sono tutti mezzi per promuovere la propria musica. A fare i casti e puri anticapitalisti si finisce a produrre musica per quattro persone in una stanza cantandosela e suonandosela da soli. 
Vorrei far notare inoltre che Lo Stato Sociale è l’unica band che – nonostante il fatto che sia cresciuta sia per qualità sia, soprattutto, in quanto a fama – ha mantenuto invariati i prezzi dei biglietti dei concerti, rispettando e conservando quello spirito popolare che li ha sempre contraddistinti. 

Dal punto ti vista musicale si può criticare il fatto che le sonorità di molti pezzi siano cambiate – si siano evolute – e questo può piacere o meno, però nessuno si sofferma mai sulla reale valenza di quel che scrivono nei loro testi. Sono una delle poche band in Italia che ancora ha una spiccata connotazione politica, e che veicola i propri messaggi forse – sotto certi aspetti – anche in un modo più piacione per arrivare ai più, ma ciò non significa che siano scesi a compromessi con una sorta di Sistema. 

Non soffermiamoci alla superficie, guardiamo concretamente il loro percorso. Sembra che ormai li si vada a identificare come “i venduti”, che un tempo erano la bandiera degli alternativi, solo perché ora qualche pezzo passa in radio, ma se si ascoltano attentamente anche gli ultimi album, non hanno perso il loro carattere: ‘Turisti della democrazia’, in altre forme, rivive anche nei progetti successivi.
Possiamo ritrovare ‘Abbiamo vinto la guerra’ ne ’La rivoluzione non passerà in tv’, oppure ‘Mi sono rotto il cazzo’ in ‘C’eravamo tanto sbagliati’, senza poi scordarci che la loro natura ancora traspare, anche dopo il primo album, ad esempio in canzoni come “Linea 30”,  “Questo è un grande paese”, “Mai stati meglio”, “Nasci Rockstar,  muori giudice a un talent show”, e “Senza macchine che vadano a fuoco”.

Sembra che nel mondo della musica indipendente italiana ci sia la tendenza a osannare unicamente l’artista di nicchia, lo sconosciuto supportato in quanto tale – che per inciso, spesso produce musica mediocre – a discapito della sua reale qualità. Questi artisti, portati inizialmente in palmo di mano dall’intelligentia indie vengono poi scaricarti e ripudiati non appena si propongono ai più. 
E questa arrogante smania di volersi sentire sempre più puri e giusti si autoalimenta, facendo si che ‘la bolla dell’indie’ si ingigantisca sfornando nuovi pseudoartisti ogni sei mesi per il solo fatto che non li conosce nessuno. Questa brama del ‘nuovo’ va a discapito della qualità e finché ci sarà questa domanda continua aumenterà l’offerta, e si gonfierà continuamente fino a scoppiare. 

Quello dell’indie è un mercato, e non si differenzia in alcun modo da quel mondo che vien definito ‘mainstream’ e di cui fa parte anche Sanremo. La musica è bella se piace, sì, ma soprattutto è bella se è di qualità e con reali contenuti: non basta creare un hype per definirsi un artista.

Lo Stato Sociale ha una storia e delle chiare origini che non hanno mai rinnegato, e non si merita queste assurde crociate in difesa di una fantomatica purezza musicale.
Queste pagine – in modo molto snob ed elitario – pretendono di avere la verità in tasca, di poter dettare una linea, ma se davvero ne avessero la competenza e una reale coscienza critica  per farlo sarebbero tutti dei discografici. Quindi, rivolgendomi a voi che li criticate sentendoli senza ascoltarli realmente: “Non siete Lester Bangs, non siete Carlo Emilio Gadda, si fa fatica a capire cosa scrivete – bontà di Dio – avete dei gusti di merda”.

Tommaso Proverbio

TAG: Ariston, bologna, indie, l'Anguilla, Lo Stato sociale, Musica, Sanremo, Tommaso Proverbio
CAT: Milano, Musica

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