Il ruolo del governo locale a supporto dell’innovazione sociale

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20 Luglio 2015

Le istanze provenienti dal basso, grazie alle nuove possibilità di diffusione, sono in via di moltiplicazione: si propone infatti, in forma rinnovata, una forte domanda di cambiamento, catalizzata dai bisogni insoddisfatti – o, paradossalmente, supersoddisfatti –  che la crisi (chiamiamola così per brevità) porta a galla. L’attuale fase storica, caratterizzata da un restringimento del sistema di welfare, da una separazione sempre più sfumata tra pubblico e privato, pone in modo netto una domanda.

Come intercettare e dare risposta in modo efficace ai bisogni sociali, esistenti o emergenti? Quali soggetti e con quali strumenti possono oggi accreditarsi come attori di sviluppo del contesto sociale, soddisfacendo una domanda proveniente dalla collettività? E infine quale ruolo per la collaborazione tra attori pubblici, privati e non profit nella creazione o partecipazione a ecosistemi di cambiamento?

Molte risposte possono essere fornite da una ridefinizione del ruolo delle politiche pubbliche come nodo (e leva) capace di creare e rafforzare nuove relazioni, collaborazioni e partnership che siano in grado di rispondere in maniera efficace ai bisogni latenti o diffusi della collettività. Questa ridefinizione richiede necessariamente un salto culturale che permetta di prescindere dall’attuale ruolo, a tratti reale, a tratti stereotipato, del settore pubblico come soggetto relegato alla correzione dei fallimenti del mercato – anche in forma di riduzione di esternalità negative prodotte dal sistema economico – o di gestione (più reattiva che proattiva) dei beni pubblici.

E’ un tempo fertile per l’innovazione sociale. Da alcuni anni, prevalentemente in territorio urbano si assiste alla maturazione di soggetti di varia natura che mirano a generare cambiamento sociale: innovatori, grandi imprese, cittadini e associazioni, fornitori di servizi di pubblica rilevanza, fondazioni, organizzazioni non profit. Nuove forme di privato sociale e nuove imprese ibride, organizzazioni che hanno come scopo la creazione di valore sociale o ambientale e la sostenibilità economica come mezzo, imprese di comunità, solo per citarne alcune.

Un magma di realtà difficilmente catalogabili – la “letteratura” li ha identificati prima come “wavemaker”, poi “changemaker”, poi “pionieri”, ma il dibattito tassonomico è ancora aperto – che pongono al centro delle proprie operazioni il tema del cambiamento sociale.

Nel mondo che sta emergendo la complessità è condizione irriducibile che, se da una parte genera confusione e incertezza, dall’altra offre, nelle attuali trasformazioni economiche, politiche e culturali, la possibilità di pensare il ruolo di ciascuno nell’agone socio economico in modo nuovo. La relazione di interdipendenza instaurata tra questi soggetti contribuisce a creare un ecosistema resiliente che concorre a garantire il proprio autosostentamento grazie alla grande “biodiversità” in esso contenuta. Un ecosistema capace di adattarsi ai veloci mutamenti e a rispondere in modo positivo alle sollecitazioni derivanti dalle costanti trasformazioni a cui è sottoposto. Un ecosistema che, per raggiungere i risultati sperati, deve essere in grado di generare connessioni tra soggetti di diversa natura (imprese, pubbliche amministrazioni e associazioni non profit, cittadini), che insistono su di un medesimo territorio affinchè cooperino in modo attivo, efficace e integrato.

Milano appare tra i luoghi ideali dove testare le potenzialità di questo ecosistema, per comprenderne i limiti e le possibilità di impatto. Milano, infatti, per storia e tradizione ma anche per cultura e capacità di generazione di quel conflitto da cui spesso nascono soluzioni e pratiche nuove, racchiude in sé gran parte dei soggetti potenziali protagonisti di questi ecosistemi e fornisce un humus fertile alla proliferazione di pratiche (più o meno potenti, alcune generative, altre degenerative) spesso afferenti al variegato macro mondo della “sharing economy”. Fenomeni talvolta ancora underground, ma con l’intenzione di superare un certo approccio “alternativista” per proiettarsi – forse come elementi correttivi – nell’economia mainstream.

Milano ha avviato progetti capaci di favorire questo ecosistema, facendo leva su risorse non necessariamente finanziarie. All’interno di questo mutato scenario, infatti, le risorse finanziarie, un tempo principale leva a disposizione del settore pubblico per realizzare o supportare dinamiche ad alto impatto sociale, risultano sempre più scarse. E’ quindi necessario fare ricorso a modelli differenti che, se (de)centrati su meccanismi collaborativi, possono fungere da strumento di facilitazione del cambiamento, permettendo alla pubblica amministrazione di assumere un ruolo chiave negli ecosistemi di innovazione sociale esistenti e in via di sviluppo.

Tali modelli possono essere basati – a titolo esemplificativo – su percorsi di rigenerazione e valorizzazione di asset oggi sotto utilizzati o mai utilizzati, che possono essere fisici, come aree abbandonate o non occupate, o intangibili, come dati, informazioni, relazioni. Percorsi ancor più efficaci se accompagnati da politiche di abilitazione o catalizzazione di processi collaborativi nascenti o esistenti, e da interventi che offrano visibilità alle azioni e ne migliorino le condizioni per la replicabilità. Da ultimo, la generazione di una domanda pubblica qualificata permane una possibilità, per i nuovi attori protagonisti del cambiamento sociale, di coalizzarsi per rispondere alle esigenze espresse dal settore pubblico locale.

Generare impatto è anche una questione di tempi. Identificare il “momentum” (inteso nel caso come lo “zeitgeist” connesso alla fase di maturazione del contesto) per avere il massimo impatto nel contribuire a processi di cambiamento.

Il settore pubblico può intervenire ex ante facilitando e stimolando la realizzazione di progetti innovativi in ambito sociale. Basti pensare a quanto realizzato dalla città di Seoul che, attraverso la “Seoul Innovation Planning Division”, raccoglie e cataloga buone prassi di innovazione sociale realizzate in altre città del mondo e declina le più promettenti all’interno della città stessa, oltre a raccogliere le più interessanti idee innovative dai propri cittadini sistematizzandole e divulgandole a tutti i soggetti che possono collaborare alla loro realizzazione.

In secondo luogo, il settore pubblico può intervenire in itinere amplificando l’impatto di iniziative già esistenti attraverso strumenti e meccaniche innovative. Un esempio arriva dagli Stati Uniti. Il “Social Innovation Fund”, avviato nel 2009 dalla Casa Bianca, è un fondo alimentato da risorse pubbliche statali. Il funzionamento del fondo prevede il finanziamento annuale di diversi intermediari, organizzazioni pubbliche o private “place based” con una spiccata conoscenza dei territori e dei bisogni tipici, obbligate a raddoppiare la cifra ricevuta, fino a 10 milioni di dollari, attraverso altri finanziamenti provenienti da organizzazioni non statali. Le risorse ottenute dagli intermediari sono poi investite in iniziative locali promosse da soggetti non profit, a loro volta chiamati a raddoppiare i fondi ricevuti con lo stesso principio applicato agi intermediari. Il Social Innovation Fund permette dunque allo Stato di triplicare le risorse inizialmente investite, attraverso un meccanismo di leva, facendo ricorso a fondi privati e locali, delegando alle organizzazioni più vicine ai bisogni dei territori la scelta dei progetti da finanziare.

In ultimo il settore pubblico può realizzare interventi ex post, con l’obiettivo di divulgare, moltiplicare e favorire le politiche e le iniziative più efficaci nel soddisfare i bisogni sociali o implementando strumenti che permettano di valutarne l’efficacia stessa. Questi risultati possono essere raggiunti, ad esempio, istituendo premi o riconoscimenti che permettono da un lato di dare visibilità alle iniziative di successo e dall’altro implicano, per la natura stessa delle strumento utilizzato, la necessità di identificare e sperimentare meccanismi di valutazione (e perché no, di misurazione degli impatti).

Solo alcuni piccoli esempi che possono essere parte dell’armamentario a disposizione del settore pubblico per stimolare, rafforzare o amplificare l’impatto generato dagli ecosistemi che promuovono il cambiamento. E’ chiaro che tali dinamiche abbiano maggiori possibilità di riuscita laddove il perimetro di “sperimentazione” sia identificabile. La città, in tal senso appare il perno per il loro sviluppo. Nelle esperienze citate la città si impone come luogo ideale per la triangolazione tra organizzazioni (profit e non profit) e istituzioni, un crocevia tra approccio orizzontale, perchè terreno fertile per l’applicazione di approcci collaborativi basati su aspetti relazionali e approccio verticale, per le dinamiche di sussidiarietà e le possibilità offerte alle aree metropolitane dalle reti lunghe a scala globale.

 

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Articolo di Matteo Brambilla (@matteobram)  e Giovanni Pizzochero (@gipizzochero)

Matteo Brambilla. Classe 1985, laurea in scienze politiche e master in economia e management dell’ambiente e delle energie rinnovabili. Per 5 anni consulente di corporate social responsibility, sostenibilità e stakeholder engagement in RGA, oggi EY. Ha collaborato per un anno come ricercatore presso il centro di ricerca CReSV dell’università Bocconi. Oggi lavora per il Comune di Milano come City Facilitator nell’ambito della definizione della Food Policy cittadina, facilitando i rapporti tra l’amministrazione e gli stakeholder coinvolti da tale policy.

Giovanni Pizzochero. Classe 1981, laurea in Geografia e in Scienze Politiche, Giovanni progetta e realizza soluzioni di innovazione per la sostenibilità rivolte ad organizzazioni profit e non profit. Consulente e project manager in Avanzi, si occupa di rapporti tra impresa e territorio, stakeholder engagement, processi partecipativi e comunicazione. Giornalista pubblicista, scrive qua e là di temi legati all’innovazione sociale e alla corporate social responsibility.

 

 

TAG: innovazione sociale, milano
CAT: Milano, Sharing economy

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