L’Italia deve credere di più nella microelettronica, le sue aziende lo meritano

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15 Gennaio 2023

Dieci anni fa si sosteneva con granitica certezza che il petrolio del futuro sarebbero stati i dati. Era il periodo di massimo splendore del cosiddetto GAFA (Google, Amazon, Facebook ed Apple), e almeno in America sulle app si costruivano imperi miliardari. Il petrolio del futuro sono i dati, lo dicevano tutti, qui a Milano come a New York, era uno di quei mantra coniati in qualche prestigiosa business school, rimasticato dal Wall Street Journal e dall’Economist, e diventato (con un paio di decadi di ritardo) luogo comune.

Noi uomini però non viviamo nel mondo dei bit, ma in quello degli atomi. Le app grazie alle quali aziende geniali come Uber, Instagram e TikTok sono diventati colossi, infatti, girano sugli smartphone che tutti noi abbiamo in tasca. E neppure il più sofisticato degli smartphone funziona senza componentistica microelettronica. Il cuore di uno smartphone non è, a dispetto di quanto comunemente si ritenga, lo schermo, tantomeno la batteria. No, il cuore dei nostri gioiellini tecnologici è il SoC, che sta per System on a Chip. Il SoC include la CPU (nome con cui tutti abbiamo, più o meno, familiarità), la GPU etc.

Gli smartphone sono piccoli computer, e hanno bisogno del silicio. Non sono gli unici, però. Le automobili che guidiamo per andare al lavoro, dagli amici o a sciare sono piene zeppe di elettronica, come può confermare ogni elettrauto che si rispetti, e nelle vetture più recenti la microelettronica è con discrete probabilità la componente più pregiata e utile. La lavastoviglie ultimo modello che ci risparmia di lavare i piatti ha dentro dei chip. L’assistente domestico che ci annuncia il meteo del giorno dopo o il prezzo delle azioni ha dentro dei chip. Il pc che usiamo in studio o in ufficio ha dentro, è lapalissiano, dei chip. Perfino la carta di credito con cui paghiamo il ristorante o il sarto ha un chip.

Senza i chip non si ferma unicamente la Silicon Valley nella lontana California, ma anche milioni di aziende in Germania, Francia e Italia, cioè le aree più industrializzate  e strategiche dell’Europa. Senza i chip rischiamo, per dirla con brutale ma necessaria franchezza, di morire di fame, perché l’Italia non campa solo vendendo arance, prosciutto, mele e vino, non siamo più nel 1953. Purtroppo i maggiori colossi del settore sono tutti non-europei, nomi che al lettore medio 9 volte su 10 diranno poco-niente, però soggetti che in questo turbinoso periodo giocano un ruolo autenticamente decisivo per il nostro futuro. Parlo di MediaTek, Qualcomm, Samsung, TSMC, UNISOC etc., società gigantesche che stanno o nella Cina comunista, o a Taiwan, o in Corea, o negli Stati Uniti, o in Giappone.

La vecchia cara Europa su questo è indietro, dopo essersi smarrita per decenni nei dedali di un ordoliberismo senza se e senza ma, nei sogni irenici forse più utili per una lezione su Kant che per affrontare la dura realtà del mondo, nei vagheggiamenti panregolatori, dimenticando che se i palazzi di Bruxelles sono riscaldati e illuminati, è perché l’Europa compra petrolio e gas da asiatici e africani, ma vende loro lavastoviglie, stereo, auto etc. Per tale motivo l’Italia, l’Europa dovrebbero aiutare di più la microelettronica, prima di tutto allocando budget molto più cospicui all’università e alla scuola, ovverosia quei luoghi che formano gli ingegneri e i tecnici tanto preziosi per produrre, e progettare, nuovi chip. Mesi fa è stato varato il Chips Act, un ottimo inizio, però il gap tra l’Europa da un lato, le nazioni asiatiche dall’altro richiede sforzi ancora maggiori.

In Italia (e in Francia) possiamo contare su un’eccellenza, la famosa STMicroelectronics, che fattura circa 12 miliardi di euro e produce microelettronica avanzatissima. Grazie al genio di Pasquale Pistorio, ingegnere che per tanti ha guidato con lungimiranza e visione il colosso francoitaliano, la STMicroelectronics ha un importantissimo stabilimento nella città siciliana di Catania, e ad ottobre ha annunciato che investirà oltre 700 milioni di euro in un quinquennio per realizzare un impianto integrato per la produzione di substrati in carburo di silicio proprio  nella metropoli alle pendici del monte Etna.

La STMicroelectronics ha uno strategico stabilimento anche alle porte di Milano, ad Agrate, cosa che ricorda anche ai più scettici e dubbiosi che Milano, quando vuole e ha visione, può davvero essere una delle capitali tecnologiche europee, perché tra università, infrastrutture, know-how etc. ha davvero tutto.

Per fortuna però oltre alla STMicroelectronics c’è molto altro, nel nostro paese. A Todi, in quell’Umbria che ci fa subito pensare a una natura e a un’arte splendide e senza tempo, opera la ELES Semiconductor Equipment, magnifico esempio di innovazione tricolore. Nel torinese si lavora sulla microelettronica per il mondo dell’auto, che come si ricordava sopra dipende molto dai chip, e sempre più lo dipenderà. E forse in Veneto, in un paese poco conosciuto ai non-veronesi chiamato Vigasio, la Intel aprirà un enorme hub europeo per l’imballaggio e l’assemblaggio dei semiconduttori; in questo caso non è soltanto merito del business ma anche della politica, e in particolare di Mario Draghi, che da premier ha fatto molto per spingere il colosso americano a puntare sull’Italia. Occorre, tuttavia, crederci, perché una partita così importante può essere solo vinta, possibilmente 3 a 1. I nostri centroavanti, voglio ricordarlo ancora una volta, sono gli scienziati, gli ingegneri, i tecnici specializzati; dunque facciamo come Israele, la “startup nation” che ha stupito  il mondo, e investiamo di più nella ricerca e nella formazione.

TAG: chips, Industria 4.0, innovazione, italia, microchip
CAT: Innovazione, macroeconomia

Un commento

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  1. kevin498 1 mese fa

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