Il governo concede agli inquilini delle case popolari il diritto di acquisto a prezzi da saldo. Una casa del valore di mercato di quasi 300 mila euro potrà essere vendita a 30 mila. Uno zero in meno, proprio così. Finalmente, dopo tre mesi dalla data di approvazione, sulla Gazzetta Ufficiale n. 115 del 20 maggio 2015 è stato pubblicato il decreto relativo alla procedure di alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica – le cosiddette case popolari – di proprietà dei Comuni e degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) o degli enti ad essi assimilabili, in attuazione della Legge 23 maggio 2014, n. 80 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, recante misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”. Cosa c’è scritto nel decreto? Perché?
Anzitutto, relativamente alla legge non sono state sollevate da parte delle Regioni questioni di attribuzione costituzionale. Il relativo decreto attuativo, a firma congiunta del Ministro delle Infrastrutture dei Trasporti, dell’Economia e delle Finanze e per gli Affari Regionali e le Autonomie, ha ottenuto l’intesa nel dicembre 2014 della Conferenza Unificata Stato-Regioni-Città ed autonomie locali. La responsabilità è quindi ampiamente condivisa da tutti i livelli amministrativi e politici, parlamento compreso, ferma restando l’iniziativa del Governo centrale.
Secondariamente, IACP e Comuni devono approvare entro il prossimo settembre specifici programmi di alienazione, con l’obbiettivo di conseguire la “razionalizzazione ed economicità di gestione del patrimonio”. In questo senso devono essere favorite le dismissioni di alloggi situati in condomini in cui il proprietario pubblico sia in minoranza o in situazioni in cui vi sia assenza di servizi o siano presenti immobili fatiscenti o esistano costi insostenibili di manutenzione e/o ristrutturazione. I proventi dovranno essere destinati a un programma di recupero degli alloggi popolari, all’acquisto di unità esistenti o, in ultima istanza, a nuova costruzione. E fin qui tutto bene.
Ma non è tutto, e arriviamo all’ultima e più preoccupante questione.
Il decreto non fissa limiti espliciti alla quantità di alloggi vendibili: potrebbero essere alienati, per paradosso, tutti gli alloggi popolari. Più precisamente, è lasciata libertà totale ai soggetti proprietari: e in tempi di magra dei conti degli enti locali e delle aziende pubbliche questo non è sicuramente un buon principio. Il prezzo di vendita è fissato secondo due procedure distinte per due categorie diverse di alloggi. Senza entrare troppo in tecnicismi, per la maggior parte degli alloggi, il prezzo è definito sulla base della rendita catastale rivalutata applicando un moltiplicatore pari a 100 e ridotta dell’1% per ogni anno di anzianità di costruzione dell’immobile, fino a un massimo del 20%.
Tutti sanno che la riforma del catasto, e con essa la scottante revisione delle rendite catastali, è oggetto di discussione da tempo immemorabile. Tutti sanno, inoltre, che le case popolari sono state per la maggior parte costruite negli anni ’70 e ’80, e sono quindi più vecchie di 20 anni.
Abbiamo quindi provato a fare un conto a partire da un immobile privato in vendita a Milano a 280.000 € e situato in un immobile degli inizi del ‘900. Abbiamo chiamato l’agenzia, chiedendo la rendita catastale, per poter fare un calcolo delle future tasse di compravendita. L’agenzia ha comunicato che la rendita ammonta a 392,51 €.(392,51*100) – 20% = 31.400 €
Un immobile che con una perizia tecnica sarebbe stato valutato 280.000 € sarà inizialmente offerto in vendita a 31.400 €. Non c’è bisogno di aggiunte.
Ma a chi potrà essere offerto in vendita? Il decreto indica che l’alloggio deve essere inizialmente offerto all’assegnatario dell’alloggio popolare, che l’assegnatario ha 60 giorni per accettare o meno e che, nel caso accettasse, potrà rivendere liberamente l’alloggio, dopo soli 5 anni. Proponiamo un’interpretazione: un inquilino che ha avuto una casa popolare perché non poteva pagare l’affitto di mercato, ha accumulato abbastanza risorse per poter acquistare un alloggio a un prezzo irrisorio e, dopo soli 5 anni, potrà rivenderlo ai prezzi di mercato. I grandi gruppi immobiliari, che si fregavano le mani ai tempi del prima bozza di legge proposta all’epoca di Maurizio Lupi e che furono additati come i veri mandanti dell’operazione, non devono disperare. Cinque anni passano in fretta e l’affare è solo rinviato.
Nel caso in cui l’inquilino non accettasse, l’alloggio dovrà essere venduto all’asta. Sperando, per i conti pubblici e l’interesse collettivo, che le aste siano ampiamente comunicate e che ci siano moltissime offerte al rialzo.
Le case popolari sono un patrimonio prezioso, destinato a uno scopo sociale importantissimo, costruito con i contributi GESCAL (Gestione Case Lavoratori), obbligatori per molte generazioni di lavoratori. La loro svendita è un processo irreversibile e non ha nulla a che fare con la loro doverosa valorizzazione che dovrebbe vedere: affitto di qualunque spazio esistente, ristrutturazione del patrimonio (anche attraverso il contributo dei singoli inquilini e di soggetti organizzati come associazioni, fondazioni, cooperative), controllo sugli attuali occupanti e assegnazione degli alloggi a tutti coloro che ne hanno davvero necessità.
Un programma di un Governo di sinistra? Forse un programma di buon senso e basta. Difficile non pensare all’obbiettivo del consenso, agli ottanta euro regalati prima delle scorse elezioni europee proseguiti con altri mezzi. Chissà. Voci autorevoli spiegano che, in casi analoghi, non sempre il consenso è garantito. Pochi giorni e sapremo chi ha vinto la sua scommessa. A perdere, sicuramente, ancora una volta, è un paese che avrebbe bisogno di seri ripensamenti di lungo periodo rispetti ai temi dell’abitare. Neanche questa, a quanto pare, è stata la volta buona.
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