Diritti

Unioni civili, Papa Francesco conduca la Chiesa al pieno rispetto dello Stato

23 Gennaio 2016

Papa Francesco ha il dono di trovare parole di grande umanità e di condivisibile attenzione di fronte ai terribili eventi che ogni giorno accadono anche se per ora, in terre lontane e le morti non sono nostre morti. Basterebbe vedere come la stampa italiana ha ripreso e sottolineato la strage in Burkina Faso del 15 gennaio appena si è saputo che era stato trucidato anche un bambino italiano.

Papa Francesco tace invece, non altrettanto in modo encomiabile, lasciando che parlino in sua vece autorevolissime persone all’interno della struttura della Chiesa, quando si tratta di affrontare questioni che toccano la vita quotidiana delle persone qui da noi, permettendo ingerenze indebite della Chiesa nel nostro stato laico che potevamo sperare per sempre relegate al passato.

Come è dunque possibile che il cardinale Bagnasco possa dichiarare a proposito della bozza di legge Cirinnà: “la proposta di legge mi sembra eccessivamente schiacciata su una disciplina di stampo para-matrimoniale: al di là dei nominalismi, di fatto equipara la condizione giuridica delle unioni omosessuali a quelle della famiglia fondata sull’ unione tra un uomo e una donna. Chiedere che si evitino indebite omologazioni non intacca il riconoscimento dei diritti individuali di ciascuno”.

Chiedere a chi, e con che diritto? E quali sono i diritti individuali di ciascuno da riconoscere se poi non possono essere fatti valere? Bagnasco rivolge ai politici ovviamente, molti dei quali volonterosamente si adeguano aiutati da una stampa appiattita e servile.

Il punto è molto semplice. Se si riconosce che le persone omossessuali e le coppie di fatto non hanno nulla da farsi perdonare ma hanno pari diritti di quelle unite dall’istituto giuridico del matrimonio a loro vanno – proprio! – riconosciuti tutti i diritti e obblighi derivanti dall’istituto matrimonionale.

Nel 1958 Il vescovo di Prato monsignor Pietro Fiordelli definì dal pulpito i coniugi Bellandi sposatisi civilmente «pubblici peccatori e concubini», come se il matrimonio civile non avesse alcun valore.

Ora la Chiesa, accettata, sembrerebbe, la liceità del matrimonio civile, interviene di nuovo pesantamente in una questione che è diventata assai rilevante nella nostra vita sociale, dimostrando come di fatto non riconosca il pieno e incondizionato rispetto della laicità dello Stato. L’istituto dell’unione civile non deve essere considerato di rango B, come se fossimo ancora al tempo del film di Zhang Yimou, Lanterne rosse, fra mogli principali e secondarie.

Vorrei soffermarmi su un’ultima questione lessicale, per nulla formale, perché forma e sostanza coincidono. Si parla continuamente di stepchild adoption, di adozione del figliastro, tolto il velo del politically correct, un’istituzione che già esiste per le coppie sposate e dal 2007 per le coppie di fatto eterosessuali. Uno dei due partner ha la facoltà cioè di chiedere l’adozione del figlio biologico dell’altro partner, previo consenso del genitore biologico e del Tribunale per i minorenni che stabilisce – caso per caso – se l’adottante ha le carte in regola e se l’adozione corrisponde all’interesse del figlio.

Perché la stampa continua ad attribuire tale espressione (stepchild adoption) alla bozza di legge? Perché, invece di continuare a citare un’espressione straniera che allude ad un istituto giuridico dove la parola “step” introduce il concetto, negativo, di “al posto di” (stepmother= matrigna), non parla invece di adozione piena? Nelle adozioni piene la madre e il padre che hanno adottato non sono step mother e step father, matrigna e patrigno, ma sono madre e padre e basta, anche se la madre e il padre biologici vivono. Il figlio adottato non è uno stepchild, un figliastro, ma un figlio! Immagino già un nuovo lemma del bullismo: «tu sei uno stepchild!».

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