Fuori dalla trappola dei crediti deteriorati con una misura Salva-imprese

5 Aprile 2017

Nelle ultime settimane la pressione della BCE sulle banche italiane relativamente al problema dei crediti deteriorati (gli NPL, non-performing loans) ha continuato a crescere. Con la pubblicazione delle linee-guida sul trattamento degli NPL la BCE ha invitato le banche europee a perseguire “obiettivi ambiziosi” in tempi ristretti. L’obiettivo, definito su scala europea dove l’entità dei crediti deteriorati, in termini relativi, è meno imponente, è quello di ridurre il peso del credito “cattivo” rispetto al totale erogato per poter consentire una ripartenza robusta dei prestiti a imprese e famiglie.

1. Il quadro macro-economico

Allo stato attuale infatti, la dinamica dei prestiti nell’Eurozona, nonostante sia in ripresa, è ancora lungi dall’essere ottimale (cfr. Figura 1).

Figura 1

Anche uno studio della Bank for International Settlements che fotografa lo stato di salute dei sistemi bancari da una prospettiva globale conferma che il credito al settore privato in Europa, ed in particolare in Italia, ha parecchio spazio per crescere rispetto a situazioni più problematiche in Cina e Nord-America (cfr. Figura 2).

Figura 2

In Italia comunque la situazione rimane oltremodo complessa. Il dato complessivo più preoccupante è relativo alle sofferenze, cioè a quei crediti deteriorati la cui probabilità di recupero è molto bassa o quasi nulla per via dell’acclarata difficoltà del debitore a far fronte ai propri impegni (i.e. se un’impresa è in stato di decozione evidenziato dal fallimento o da altra procedura concorsuale). Il dato di gennaio 2017 indica uno stock complessivo di circa 200 miliardi di € di sofferenze lorde (cioè senza considerare le svalutazioni dei crediti effettuate tempo per tempo dalle banche mediante la contabilizzazione di perdite parziali), in lieve discesa dai massimi di dicembre 2016 (cfr. Figura 3). Il dato al netto di queste svalutazioni è più contenuto, e pari a circa 80 miliardi di €, segno che le banche hanno già tenuto conto, nei loro bilanci, di parte delle perdite attese cumulando rilevanti crediti fiscali nei confronti dello Stato (i c.d. Deferred Tax Credits, o DTC) che in parte, tra l’altro, contribuiscono alla loro patrimonializzazione, stante la disciplina prudenziale. Oltre il 60% del valore totale delle perdite potenziali (circa 120 miliardi su un totale di 200) è infatti già stato rettificato dalle banche al valore presumibile di realizzo. Questo implica che le banche stimano ad oggi di recuperare circa il 40% dai debitori in default, un dato sicuramente più basso rispetto a quanto accaduto storicamente tra il 2006 ed il 2013 (47% di valore dei crediti recuperato).

Certo il valore storico non può essere preso come riferimento assoluto, visto che riguarda un periodo non omogeneo che comprende, peraltro parzialmente, sia l’esplosione della crisi del 2009 e sia  l’esplosione del fenomeno delle sofferenze dopo il 2011.Infatti il dato storico è molto più alto rispetto a quel valore che gira tra il 15% e il 25% (con alcune eccezioni che superano tali limiti) a cui si stanno assestando le trattative con le società specializzate nella gestione degli NPL e cioè i vulture funds (o “società o fondo avvoltoio”). Vale la pena ricordare come anche i crediti delle quattro banche sottoposte a procedura di bail-in (Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Carichieti) e della Banca Tercas sono stati scorporati e trasferiti all’interno della costituita bad bank al valore del 20%. Allo stato appare difficile che la bad bank riesca a recuperare anche questo valore limitato.

Figura 3

Più complessa è la situazione delle “inadempienze probabili” (unlikely to pay – UTP), la categoria EBA di crediti deteriorati che racchiude la vecchia classificazione di Banca d’Italia in “crediti ristrutturati ed incagli”. Oltre 120 miliardi di € che si spera siano suscettibili di essere in gran parte recuperati nel momento in cui il ciclo economico tornasse con più decisione in momentum positivo. La lieve ripresina in atto dal 2015 ha già permesso di ripristinare in bonis il 22% degli UTC, liberando in questo modo preziose risorse da poter destinare in prestiti all’economia reale. D’altro canto un valore pressoché equivalente (oltre il 20%) è stato contestualmente degradato a sofferenze, mentre il restante 60% che è rimasto classificato come UTP vede le proprie possibilità di recupero ridotte per il semplice scorrere del tempo (ageing). In questa prospettiva potrebbero sorgere dubbi anche sugli accantonamenti previsti per gli UTP, circa il 30% del valore dei crediti, un valore molto inferiore rispetto al 60% effettuato sulle sofferenze.

Sebbene non ci siano cifre precise su quantità e tempi, dai contenuti delle linee-guida, pare evidente come la BCE stia de facto “suggerendo” la via preferenziale della vendita a prezzi di sconto dei pacchetti di crediti deteriorati ai vulture funds. Non si tratta di una policy nuova per la Banca Centrale Europea, che ha spinto per un’accelerazione del riconoscimento delle perdite su crediti fin dall’avvio dell’operatività del meccanismo unico di vigilanza nel 2014. D’altronde tale condotta in un’ottica di breve periodo in cui la vigilanza mira al rafforzamento patrimoniale degli istituti di credito è comprensibile; la dismissione delle sofferenze in base alla vigente disciplina prudenziale, infatti, sostituisce nell’attivo del bilancio della banca una posta (il NPL) che assorbe molto capitale con la liquidità che invece non ne assorbe affatto.

Anche i Governi italiani, che si sono succeduti, si sono mossi nel solco di questa strada, modificando le leggi che governano la deducibilità fiscale delle perdite su crediti; in un paio di passaggi legislativi il periodo di ammortamento di una perdita su crediti è finalmente passato da 18 anni ad un solo anno. In altri termini, riconosciuta una sofferenza, la banca deduce fiscalmente la perdita (in gergo tecnico la “spesa in bilancio”) in un solo anno conseguendo crediti fiscali (quindi minor gettito per l’erario). Su questo aspetto è presente infine un ulteriore incentivo a gestire in termini dismissivi gli NPL a favore dei vulture funds. I DTC contribuiscono, infatti, integralmente alla patrimonializzazione della banca in base alla vigente disciplina di vigilanza prudenziale europea. Il contributo dei crediti fiscali al rafforzamento patrimoniale degli istituti di credito dell’Eurozona è tutt’altro che irrilevante dato che supera il 15%; in Italia oltre il 10% del patrimonio di vigilanza delle banche è costituito da DTC.

I risultati sono chiaramente visibili nei dati sui tassi di recupero relativi al periodo più recente 2014-2016, scesi dal 47% al 35% a causa delle vendite di pacchetti cartolarizzati di sofferenze a prezzi medi di poco superiori al 20% alle “società avvoltoio” che si ricorda sono prevalentemente con sede all’estero. Questo accade perché all’estero, in genere, la regolamentazione dei vulture funds è meglio definita e più aderente alle esigenze del mercato. Certo nulla vieterebbe di riformare l’attuale normativa nazionale sui vulture funds tramite la costruzione di un percorso autorizzativo e di controllo specifico. Questo consentirebbe probabilmente lo sviluppo di fondi speculativi anche sul mercato nazionale; vista la rilevante dimensione della ricchezza finanziaria privata e dell’industria del risparmio gestito, sarebbe possibile indirizzare 80 miliardi di € (assai meno del 10% della ricchezza finanziaria) verso il riacquisto delle sofferenze attraverso vulture funds nazionali.

In ogni caso, la dismissione delle sofferenze a prezzi da saldo inferiori del 15%-20% rispetto al valore di recupero iscritto in bilancio ha comportato ovviamente la contabilizzazione di ulteriori perdite, che le banche hanno dovuto ripianare – a dispetto dei benefici fiscali conseguiti – attraverso round di ricapitalizzazioni forzate. Sulla perdita di valore per il sistema produttivo e finanziario nazionale (il c.d. “sistema Italia”) determinata da questa operatività, di recente, anche il Governatore della Banca d’Italia ha espresso delle perplessità durante la sua relazione al convegno Forex.

Ci sono, infatti, delle ricadute negative sul tessuto economico-produttivo derivanti dal cambio della proprietà del credito. Si passa dalla banca, interessata al recupero del credito attraverso un’interazione costruttiva con l’impresa salvaguardando l’attività produttiva, alla “società avvoltoio” motivata a “spremere” valore dal credito in un tempo più breve (che può scendere anche a soli 7 anni), anche attraverso il ricorso accelerato a procedure esecutive di varia natura. Per un’impresa già in difficoltà per via della crisi e della stretta creditizia ma che ha ancora del potenziale produttivo, l’interazione con la nuova controparte (il vulture fund) può solo nuocere alla residua capacità di resistere sul mercato. Questo fenomeno assume ancora più valenza se consideriamo che le imprese che si trovano in questa situazione sono rimaste assai poche, visto che la maggioranza delle sofferenze riguarda soggetti da tempo non più economicamente vitali. Se il fondo avvoltoio che generalmente ha sede all’estero riesce a recuperare con successo delle risorse, queste andrebbero, tra l’altro, a remunerare investitori che sono al di fuori del circuito economico nazionale; in sostanza si realizza un trasferimento all’estero di ricchezza nazionale.

A questo si aggiunge che questa strategia implica dei costi per l’erario in termini di mancati introiti fiscali, che si aggiungono al mancato gettito derivante dall’inadempienza originaria del debitore. In definitiva, a causa delle maggiori perdite che le banche sono costrette a contabilizzare, i contribuenti, come vedremo meglio più avanti, pagano un “conto salato” sia per la crisi dell’impresa che per la dismissione del credito deteriorato al vulture fund.

Questo circolo vizioso si sta da anni pericolosamente affacciando sulla scena nazionale con evidenti effetti sulla tenuta del nostro sistema produttivo; i dati sul fallimento delle imprese non sono affatto incoraggianti, per quanto ci sia stata una crescita delle procedure di amministrazione straordinaria su base volontaria.

Figura 4

2. Crisi, crediti deteriorati e gettito fiscale

A inizio 2015 confrontandomi con Guido Salerno Aletta convenivamo sull’insensatezza della pratica di continuare a svalutare prudenzialmente i crediti bancari iscritti a bilancio, portandoli come perdite attese, pretendendo contemporaneamente il pagamento degli interessi e il rimborso dell’integrale importo del debito da parte delle imprese affidate ed in difficoltà. Tale pretesa è connessa, tra l’altro, alla circostanza che sia la banca che l’impresa in difficoltà mantengono in contabilità il rapporto creditizio iscritto al valore nominale. Ciò condiziona tutte le interazioni successive, dall’avvio di eventuali accordi transattivi alle procedure concorsuali che possono condurre alla riduzione del valore di tale credito, garantendo o meno la continuità dell’attività aziendale. Nel caso in cui infatti non si dovesse raggiungere un accordo, si arriverà al fallimento dell’impresa con la conferma di fronte al giudice fallimentare del valore nominale del credito ai fini del riparto della massa attiva.

Inoltre l’impresa che ha debiti in sofferenza verso il sistema bancario si trova ovviamente a non avere accesso a nuovo credito, in quanto segnalata come “cattivo pagatore” nell’ambito delle procedure di controllo dei rischi di credito previste dal nostro sistema bancario (i.e.: la “centrale dei rischi” gestita da Bankitalia). Si tratta di un problema che coinvolge ovviamente anche i crediti UTP.  A ciò si aggiunge che negli ultimi anni tutte le banche hanno implementato sistemi di scoring creditizio interno che tendono a penalizzare automaticamente i cattivi pagatori.

Con un esempio numericamente sui generis e supportato da una grafica un po’ naïf (a beneficio dei lettori) proviamo a mostrare l’impatto della crisi finanziaria sul tessuto produttivo nazionale e sull’erario. Il ragionamento che si riporta di seguito, per semplicità, avendo riguardo ad un gettito fiscale di immediata esigibilità per l’erario può essere evidentemente esteso, senza perdite di generalità, al caso dei crediti fiscali.

Ipotizziamo un’impresa “in buona salute” che (pre-crisi finanziaria) ha un debito verso una banca di 10 milioni di € e versa tasse sui profitti conseguiti per 3 milioni di €. Nel frattempo la banca, titolare di crediti in bonis ha un’ottima redditività e versa all’erario 4 milioni di €. Siamo nell’anno 0: il gettito complessivo per lo Stato raggiunge dunque i 7 milioni di € (cfr. Figura 5).

Figura 5

Nell’anno 1, a causa della crisi internazionale, i profitti dell’impresa scendono; scende così anche l’importo delle tasse versate. L’impresa è comunque in grado di far fronte al servizio del debito; di conseguenza la redditività della banca è ancora inalterata ed i versamenti fiscali invariati. L’erario sperimenta una riduzione di gettito pari a 2 milioni di € (cfr. Figura 6).

Figura 6

Nell’anno 2 la crisi economica si aggrava. L’impresa azzera gli utili e quindi anche il suo gettito fiscale; inoltre le condizioni sono tali da rendere impossibile sostenere il servizio del debito con la banca. Si riducono di conseguenza anche la redditività della banca – che registra il credito come una sofferenza con valore di recupero stimato del 20% – e le tasse versate all’erario. A causa della crisi e della procedura di svalutazione prudenziale dei crediti il fisco registra quindi un azzeramento temporaneo del gettito (cfr. Figura 7).

Figura 7

Senza interventi strutturali straordinari, a questo punto, le sofferenze vengono vendute dalla banca al valore del 20% ai vulture fund (che come già detto sono prevalentemente con sede all’estero). Il “fondo avvoltoio” potrebbe proporre in alcune circostanze accordi di stralcio e rimodulazione del debito; tuttavia, nel caso in cui ci sia dal valore da estrarre che giustifichi un recupero atteso mediamente positivo il fondo può ricorrere allo “spezzatino” dell’impresa ovvero all’attivazione di procedure concorsuali che molto probabilmente portano al fallimento. Ipotizziamo in 1 milione di € il valore ulteriore di realizzo che il fondo “estrarrebbe” da queste attività esecutive. In definitiva circa 3 milioni di € di valore verrebbero incassati dalla “società avvoltoio” di cui 1 milione di € esce per sempre dal circuito finanziario e produttivo nazionale; 2 milioni di € essendo, infatti, stati realizzati dalla banca con la vendita del credito in sofferenza costituiscono una “partita di giro” e restano nelle disponibilità del “sistema Italia” (cfr. Figura 8).

Figura 8

 

In definitiva, alla fine del ciclo di “smaltimento” delle sofferenze secondo le modalità attualmente più diffuse, Il credito di 10 milioni di € è stato dunque più che pagato, gravando per 9 milioni di € sullo Stato (per via della riduzione di gettito pari a 2 milioni di € nell’anno 1 e a 7 milioni di € nell’anno 2) e, quindi, sui contribuenti e per 3 milioni di € sull’impresa.

Inoltre verrebbe inesorabilmente perduto il gettito potenziale derivante da un rilancio di quella percentuale di imprese per cui basterebbe una moderata riapertura del credito bancario, al momento invece bloccato per via dell’informativa registrata nella Centrale dei Rischi di Bankitalia. Secondo stime recenti di Banca d’Italia quasi il 20% dei crediti che riescono ad ottenere una ristrutturazione diversa dalla cessione in blocco ai vulture funds recupera poi lo status di credito in bonis.

Aver svalutato il credito e spesato le perdite a bilancio per poi vendere la sofferenza ai vulture funds ha pertanto solo distrutto valore con le conseguenze in termini di produzione industriale e dell’occupazione del Paese che stiamo osservando in questi anni. Dall’inizio della crisi siamo di fronte a dati da scenario post-bellico con la produzione industriale scesa del 25%, la disoccupazione ben oltre il 10% e con dati relativi alla disoccupazione giovanile che superano il 35%.

3. La proposta: il Salva-Imprese

Da questo quadro non troppo confortante ha preso forma una proposta alternativa di gestione delle sofferenze che ho descritto per la prima volta nel mio libro “La Moneta Incompiuta” (v. paragrafo 11.6), di recente ripresa con delle interessanti specificità da Dino Crivellari e anche in un recentissimo disegno di legge. Si tratta sicuramente di una misura una tantum giustificata dall’allarmante situazione in cui una doppia recessione in pochi anni ha precipitato l’economia del Paese.

Questa proposta parte dal presupposto di superare la contabilizzazione a valore nominale del rapporto creditizio banca-impresa nel momento in cui si proceda ad una sua svalutazione.

Tale superamento riflette le considerazioni illustrate nel paragrafo precedente e cioè che lo Stato – e quindi la collettività – abbiano già pagato un costo, in termini di mancato gettito attuale e prospettico, per la crisi in cui è incorsa l’impresa e per il conseguente deterioramento del rapporto creditizio con la banca.

In questa prospettiva appare ragionevole prevedere una nuova contabilità che “sincronizzi” i bilanci della banca e dell’impresa al valore del credito svalutato. In altri termini, il valore nominale del rapporto creditizio nel bilancio tanto della banca quanto dell’impresa va aggiornato per riflettere il processo di svalutazione del NPL definito dalla banca.

Questa svalutazione (o haircut) del rapporto creditizio non è quindi un condono, ma semplicemente riflette quanto lo Stato, e dunque il contribuente, hanno già pagato per sostenere il “sistema Italia”; in definitiva, l’idea è quella di evitare che paghino ancora attraverso i vari costi diretti e indiretti derivanti dalla distruzione del tessuto industriale e del potenziale rapporto sinergico con le banche.

L’haircut del rapporto creditizio non è però sufficiente per consentire all’impresa di accedere nuovamente al credito né per sfuggire alle “società avvoltoio”. L’impresa, infatti, nonostante l’alleggerimento del fardello del debito resterebbe comunque segnalata nella Centrale dei Rischi di Bankitalia e la banca (per motivi di patrimonializzazione) avrebbe comunque utilità a vendere il credito ai vulture funds.

Superare questa criticità qualifica il presupposto per dare una chance allo Stato di poter rivedere qualcosa dei trasferimenti di ricchezza già effettuati.

Relativamente alla riapertura dell’accesso al credito è necessario che la nuova contabilità trasformi la sofferenza in un credito in bonis nel bilancio della banca con conseguente cancellazione dell’informativa problematica nella Centrale dei Rischi di Banca d’Italia e dai sistemi interni di scoring creditizio delle banche. Inoltre, per rendere indifferente alle banche, ai fini della disciplina di vigilanza prudenziale, la cessione del credito deteriorato ai vulture funds rispetto alla proposta trasformazione del NPL in un credito in bonis lo Stato dovrebbe prestare una garanzia per proteggere le banche da ulteriori perdite. È infatti evidente che non tutte le imprese che beneficiano dell’haircut saranno in grado di onorare, per lo meno nel breve periodo, la parte residua del debito verso la banca.

Quanto sopra descritto viene rappresentato con la grafica naïf dell’esempio che è stato illustrato in precedenza (cfr. Figura 9).

Figura 9

La scommessa del Salva-Imprese a livello di sistema è quindi che l’impresa, sgravata da un’elevata quota del proprio debito e senza lo stigma di “cattivo pagatore” da parte delle procedure di controllo dei rischi del sistema bancario possa tornare a finanziarsi in banca in maniera adeguata ed a competere sul mercato. Le ricadute positive sulla crescita del credito “buono”, sulla produzione e sull’occupazione non si farebbero attendere riportando il sistema nel nostro esempio al punto di partenza (figura 5).

Lo Stato dovrebbe comunque tutelarsi in via preventiva da comportamenti opportunistici delle imprese considerando eligible per il programma di garanzie soltanto quelle imprese che hanno un track-record fiscale inappuntabile (sono cioè buone contribuenti); questo passaggio richiederebbe l’implementazione tecnica di un algoritmo ad hoc che possa incrociare correttamente i dati riferiti allo status creditizio con la situazione reddituale e fiscale delle imprese facenti richiesta. In questa prospettiva, tramite un’opportuna calibrazione dell’algoritmo sarà possibile selezionare i crediti deteriorati in capo ad imprese realmente meritevoli di supporto, tenendo ben presente le dinamiche che hanno caratterizzato l’erogazione di credito durante l’epoca del cosiddetto “capitalismo di relazione”.  Si avrà sostanzialmente una sorta di “controllo di qualità” del credito inizialmente basato su un’informativa ex post, ma funzionale ad impostare per il futuro in una prospettiva squisitamente meritocratica il rapporto banca-impresa.

Ovviamente sarebbe necessario un limite temporale ben definito, tale per cui possono essere ammesse al programma soltanto quelle sofferenze che si sono originate per effetto diretto della crisi economica. Questo delimiterebbe non solo l’ambito di intervento, ma eviterebbe anche situazioni di moral hazard nelle quali l’impresa potrebbe essere incentivata a non onorare i debiti, certa di un supporto successivo da parte del Salva-Imprese.

Per agevolare la compatibilità di questa proposta con la legislazione comunitaria, inoltre, il costo della garanzia invece di essere sostenuto dallo Stato (direttamente o indirettamente attraverso appositi veicoli) potrebbe essere sostenuto dall’impresa. Considerato il re-ingresso dell’impresa sul mercato del debito, questo costo, come meglio illustrato nel seguito, sarebbe peraltro limitato e non dovrebbe essere preclusivo per l’accesso al programma. In definitiva all’impresa sarebbe richiesto di focalizzarsi sulla sua gestione caratteristica e di pagare un costo risibile per la garanzia dello Stato, facendo ricorso al supporto finanziario delle banche. Vengono così escluse improbabili competizioni con i vulture funds nell’interazione con la banca al fine di trovare un accordo transattivo del proprio rapporto creditizio con l’intento di evitare la cessazione della loro attività produttiva. Simili trattative potrebbero infatti rivelarsi fuori dalla portata di quella vasta platea di imprese che ancora producono, ma sono appena al di sopra della linea di galleggiamento in termini di liquidità.

4. La dimensione del Programma Salva-imprese

Al fine di quantificare la dimensione del programma Salva-Imprese si deve evidentemente partire dal dato complessivo dei crediti deteriorati pari a circa 320 miliardi di €; questa ipotesi scaturisce dalla circostanza che anche i crediti UTC determinano segnalazioni nella Centrale dei Rischi che rendono difficile l’accesso al credito per le imprese.

Si effettuano quindi delle ipotesi prudenziali. Si considera in base ai criteri di screening dei crediti deteriorati sopra descritto che solo il 30% sarà ammissibile al programma, e cioè circa 100 miliardi di €. Dal punto di vista della valorizzazione in bilancio – e sempre in un’ottica prudenziale – si ritiene che le perdite su questi crediti ammissibili siano state “spesate” a bilancio (cioè coperte tramite appositi accantonamenti) per il 40%. Considerato un valore di recupero del 20% in caso di fallimento dell’impresa, l’impegno finanziario complessivo in termini di garanzie statali sarebbe pertanto pari a circa 40 miliardi di €.

Si tratta di una cifra assai contenuta se comparata ai 150 miliardi di garanzie statali – richiamate nuovamente nel decreto “SalvaBanche” – a supporto della liquidità del sistema bancario e che comunque non affrontano il problema degli NPL che affligge il Sistema Italia in proporzioni assai più rilevanti del resto dell’Eurozona.

Quanti potrebbero essere i costi finanziari effettivi? Supponendo in maniera realistica tra il 20% ed il 40% il tasso di default delle imprese beneficiarie della garanzia sui debiti residui, il costo finanziario effettivo si collocherebbe in una forchetta tra i 7 e i 15 miliardi di €. Solo una valutazione estremamente prudenziale che assumesse il tasso di default all’80% implicherebbe un costo di 30 miliardi di €. Presumibilmente, usando parametri meno rigidi e che tengano conto del prevedibile superamento del credit crunch si può stimare che il costo si assesterebbe però su valori intorno ai 5 miliardi €. Va da sé che tali costi verrebbero medio termine compensati dal ritrovato gettito fiscale delle imprese per le quali il provvedimento dispiegherà la sua efficacia.

In definitiva, il “Salva-Imprese” rappresenta una soluzione dirompente anche se atipica dal punto di vista delle policy economiche convenzionali. Se applicato con successo, si potrebbe prendere in considerazione l’estensione a livello europeo, dove il bacino complessivo delle sofferenze supera ampiamente i 1.000 miliardi di €. Sono sempre più convinto che dalla crisi si esca pensando a soluzioni che siano realmente “out of the box”.

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CAT: Banche e Assicurazioni, manifattura

Un commento

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  1. massimiliano-zanoni 7 anni fa

    Giustamente Minenna sottolinea che i recuperi sui sulle sofferenze sono stati storicamente sopra il 40%, quindi crisi o non crisi chi li compra a 20% fa un affare.
    Inoltre mentre la banca, per diversi motivi, è interessata a recuperare senza ‘uccidere l’azienda, per mantenere un rapporto attivo e soprattutto profittevole, chi acquista crediti deteriorati ha interesse ad ottenere il più possibile e subito. Non gli importa la relazione.
    Il tutto al grido piratesco di: fate presto.

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