All’origine di mondi immaginari: intervista all’artista Monica Manganelli

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18 Ottobre 2019

Diciannove anni di carriera, una formazione a cavallo fra architettura, conservazione dei beni culturali e scenografia e grafica. All’attivo scenografie, direzioni artistiche, progettazione visiva per il cinema e il teatro: dalle scene al grande schermo, passando per il mondo della televisione e della moda. L’artista Monica Manganelli è difficile da inquadrare nelle poche battute di una presentazione. Nata a Parma nel 1977, nomade per professione, studiosa attenta e curiosa, pronta a confrontarsi in modo incessante con la contemporaneità, Manganelli porta avanti un’incessante ricerca di miglioramento tecnico, culturale e creativo della sua produzione. L’abbiamo intervistata per conoscere meglio il suo percorso e scoprire quali saranno i prossimi passi nel suo intenso e ricco viaggio.

Partiamo dall’inizio: come è nata la passione per la costruzione di “mondi immaginari” e qual è stato il tuo percorso di formazione?

La passione per l’arte mi è stata trasmessa da mia madre, che fin da quando ero bambina mi portava al cinema a vedere i film della Disney e alle mostre. Fin da piccola iniziai quindi a disegnare mondi immaginari sul tappeto di casa, dove immaginavo si muovessero i miei personaggi. Di conseguenza, essendo stata stimolata fin da bambina, fu tutto molto naturale: senza alcun dubbio la mia scelta di frequentare successivamente prima Architettura all’Istituto d’arte di Parma e poi Conservazione dei Beni Culturali all’Università, per studiare ed approfondire la storia dell’arte, lo studio della fotografia e cinema furono scelte altrettanto naturali. Però capii che non volevo rimanere una teorica e quindi ripresi a disegnare e mentre mi laureavo, uscì casualmente, piovuta letteralmente dal cielo, l’opportunità di frequentare un corso di specializzazione in scenografia teatrale presso il Teatro regio di Parma. In questo modo entrai nel mondo del teatro, che fino ad allora non avevo mai preso in considerazione. Poi mi consigliarono di imparare la computer grafica, fondamentale per iniziare a fare l’assistente, e mi specializzai anche in quello. È stato un percorso di formazione quindi molto ponderato e coerente.

Cinema e teatro: due mondi apparentemente simili, in quando legati alla comunicazione per immagine e parola, ma in realtà profondamente diversi per rapporto con il pubblico, riproducibilità dell’atto artistico, relazione mediata o immediata con lo spettatore. Qual è il tuo approccio a queste due realtà?

È vero sono due mondi molto differenti e devo dire che il teatro mi ha insegnato molto a livello di disciplina, ad esempio, e di approccio al progetto. Lo studio della drammaturgia, la ricerca storica e iconografica e preparazione culturale per il teatro sono fondamentali. Nel cinema odierno, invece, è un po’ lasciato in disparte questo aspetto, specialmente in Italia,  mentre io lo applico comunque e in ogni progetto che affronto. Visivamente e scenograficamente, ad esempio, la prospettiva teatrale/lirica è differente: abbiamo una dimensione macro (con una concezione corale), mentre nel cinema micro (primi piani). Io credo che comunque l’importante sia conoscere entrambi i linguaggi talmente bene da poterli utilizzare insieme e permettersi così di portare qualcosa del teatro nel cinema e viceversa. Io credo infatti molto nella interdisciplinarità delle arti ed è la caratteristica fondamentale del mio percorso artistico che cerco di portare avanti, motivo per cui cerco di collaborare in differenti ambiti artistici.

Nella tua carriera hai immaginato e costruito molte realtà fuori dall’ordinario. Immagino sia difficile scegliere, ma qual è il progetto a cui sei maggiormente legata e come mai?

Dire che esiste solo un progetto a cui sono legata sarebbe sbagliato, perchè nella realtà sono 3.  Ovviamente il primo è CLOUD ATLAS, nel 2011, per vari motivi: perchè ho scoperto per la prima volta cosa è la meritocrazia, non a caso all’ estero, perchè era la prima esperienza fuori dall’ Italia, nel cinema e con una grossa produzione cinematografica e ho potuto così mettermi alla prova ad un alto livello, ed è andata molto bene. Quella esperienza mi portò fortuna:  è stato un punto fondamentale nella costruzione della mia carriera, ha segnato una netta cesura tra un prima e un dopo. Tra l’altro venivo da 10 anni di teatro, ero stanca e delusa, perchè non c’erano possibilità di crescita come donna e giovane scenografa, quindi fu davvero un nuovo inizio di vita, non solo professionale. Gli altri due progetti a cui sono legata sono i miei film di animazione come regista,  (LA BALLATA DEI SENZATETTO, BUTTERFLIES IN BERLIN), che mi hanno fatto capire che è la strada su cui voglio proseguire ora e che i miei 19 anni di carriera passata sono stati fondamentali per arrivarci. BUTTERFLIES IN BERLIN, ora in distribuzione, è un mediometraggio di animazione, che parla per la prima volta assoluta nel cinema di olocausto e identità di genere insieme, è la storia della prima donna transessuale operata e sopravvissuta all’intervento. E questo progetto è stato da me fortemente voluto, perchè volevo raccontare cosa significasse “sentirsi diversi nella società”, avendolo provato io per tutta la vita, come donna che si è dedicata alla sua passione e ambizione artistica, eludendo quelli che sono i ruoli classici che una società vorrebbe da una donna. Gli anni trenta berlinesi e il periodo dei pittori della Repubblica di Weimar sono da sempre il mio periodo visivo preferito, quindi nel fare ricerca uscì la storia di Magnus Hirchfeld e dell’istituto di Scienze sessuali fondato nel 1919 e la sviluppai.

Oggi la contemporaneità sembra esprimersi principalmente per immagini: viviamo immersi ogni giorno in realtà virtuali – penso principalmente a web e social – in cui la fotografia e il filmato sono elemento centrale. Eppure è davvero scarsa la riflessione, l’approccio culturale diffuso all’immagine. Tutti si sentono, insomma, fotografi e video maker, ma è difficile individuare gli elementi di valore in mezzo al “rumore di fondo”. Pensi che questo approccio al mezzo visivo abbia modificato la nostra percezione? E in che modo? Pensi sia possibile recuperare consapevolezza, in questo ambito, e quindi una produzione/fruizione più consapevole?

Questa superficialità riguardo questo tipo di approccio dell’immagine, personalmente mi demoralizza molto. Essendo io una esteta abbastanza maniacale e perfezionista, vedere questa generalizzazione mi deprime. In particolare mi deprime il fatto che molti credano di essere fotografi e videomaker semplicemente perchè hanno uno strumento facile da usare, come il telefono ad esempio o dei software a loro disposizione. Ma quello è solo uno strumento, che se alla base non ha una ricerca e studio vale poco.  Nella società di oggi tutto è molto fluido e veloce, e di conseguenza le produzioni visive e cinematografiche ne risentono molto, hanno scarsissima ricerca estetica, drammaturgica e dei contenuti. Nella realtà non lo so se sia possibile recuperare consapevolezza, perchè i produttori-finanziatori si adeguano a quello che il mercato-pubblico vuole, quindi è da loro che dovrebbe partire anche la responsabilità di offrire progetti di un altro tipo. A volte mi chiedo oggi: “ma un autore come Olmi, e un film come Il mestiere delle Armi o L’albero degli zoccoli chi lo produrrebbe oggigiorno?” Forse nessuno.

Torniamo ai mondi immaginari e al tuo modo di costruirli. Uno fra i tanti luoghi comuni legati al mondo dell’arte è che l’artista agisca per sola ispirazione, in modo immediato, senza che dietro ci sia un vero e proprio lavoro. Una curiosità: qual è il tuo approccio a un nuovo progetto? Da cosa parti per trarre ispirazione e come procedi?

Non ho mai capito da dove esca questo luogo comune. Che l’ispirazione per un artista sia qualcosa che arrivi dal nulla, senza un vero e proprio lavoro è davvero solo un modo di dire, perchè è proprio il contrario. Tutti i maestri, dai registi, ai pittori, dai fotografi agli scultori, raccontano dello studio e lavoro di ricerca che si deve fare! Come ho accennato prima, sono una perfezionista dell’immagine e io personalmente quando inizio un progetto, che sia opera o cinema, una mostra o altro, studio e faccio ricerca sia appunto storica che iconografia per mesi e mesi. Le ispirazioni, intuizioni nascono se si conosce un argomento. È davvero uno stereotipo di chi non conosce questo ambiente pensare che dietro ad una idea non ci sia un lavoro vero e proprio. Anzi, per i film, ma anche l’opera lirica dura dei mesi, e solo dopo avere studiato l’argomento che si deve affrontare, allora ci si può permettere di confrontarsi con il regista o iniziare a scrivere o disegnare. Ritengo sia presuntuoso pensare il contrario. Tra l’altro io personalmente credo che in tutte le discipline artistiche il secolo scorso abbia dato tutto, artisticamente parlando, e ora l’unica cosa che possiamo fare sia imparare dal passato. Per questo io nei miei lavori cito altri artisti. Ad esempio BUTTERFLIES IN BERLIN, ogni inquadratura è concepita come un quadro, ed è una citazione ad un particolare regista, pittore o altro che mi ha ispirato ed ha un significato per il contenuto del film.

Nel tuo percorso hai lavorato molto anche con il mondo della moda, da alcuni ritenuto effimero e percepito come distante dall’arte con la A maiuscola. La tua opinione?

Si ritengo che il mondo della moda sia molto effimero e mi rappresenta poco al momento, infatti me ne sono allontanata. Però la moda è per me arte, è una delle meravigliose arti decorative, e nel secolo scorso, a livello di comunicazione e fotografia, ha sviluppato una propria estetica. Da Tim Walker a Peter Lindbergh, da Eugenio Recuenco a David La Chapelle, alle campagne di Louis Vuitton, come si fa a dire che non è arte? Con la moda a livello di comunicazione collaborerei ancora, proprio perchè credo che invece sia  una delle arti che hanno segnato a livello comunicativo-visivo l’immaginario del ventesimo secolo.

Una domanda, un po’ locale. Tu sei originaria di Parma, anche se da tempo sei “cittadina del mondo”. Cosa ne pensi del prossimo appuntamento della città come Capitale della cultura 2020?

Bella domanda, sarebbe un discorso lungo! Sarò critica e forse risulterò antipatica, ma osservando il tema per lavoro, e spesso vivendo differenti realtà culturali (Berlino in particolare) riesco ad avere un occhio critico sulla situazione in generale. Credo possa essere una bellissima occasione e auguro alla città di sfruttarla al meglio, ma non so se nella realtà sia davvero pronta. Quando è stato presentato ufficialmente il progetto, innanzitutto non c’erano  donne artiste sul palco e questo già dice molto. So che anche altri lo hanno notato e criticato. Inoltre credo che un appuntamento del genere debba essere l’ occasione per far conoscere al mondo realtà e talenti nostri, quindi prima di chiamare un grande nome da fuori avrei valutato realtà locali. Davvero non esisteva un illustratore o illustratrice in Emilia o una agenzia di Parma che curasse la comunicazione allo stesso livello di quella scelta? Secondo me sì. Perchè non coinvolgere Michele Pertusi, uno dei più stimati cantanti nel mondo, invece che Anna Pirozzi (che di Parma non è)? Il grande nome ci può anche stare, ma se eventualmente si affianca a quello locale. Qualche anno fa, l’assessore alla cultura precedente a quello odierno, definì Parma come una nuova Berlino, il che mi fece molta tenerezza come affermazione, perchè a livello culturale sono proprio agli opposti. Berlino accoglie, ed è un luogo che include il cittadino nella vita culturale della città, dai bambini agli anziani, e il teatro ne è un emblema, in quanto luogo di apertura verso nuove prospettive e culture differenti, a Parma è un salotto. Proprio ieri, una mia amica, che si occupa di una realtà culturale e museale in città, quando le ho chiesto come procedeva l’organizzazione rispetto al grande evento del 2020, mi ha risposto che procedeva come al solito, ovvero che non c’è in città una reale voglia di fare squadra, e ognuno alla fine si ritrova a ragionare per se’, mentre l’unione, ritengo, farebbe la forza. A proposito, concludo con le parole di Michele Pertusi di un’intervista di anni fa, in cui affermava riguardo a Parma: “Sogno che dal mattino alla sera venga offerto qualcosa che possa far bene all’anima. Aprirsi vuol dire anche non bocciare un’idea solo perchè l’ha pensata qualcun altro. Sogno una città dove si pensi molto meno al proprio interesse personale e più alla comunità”.  Questa è Berlino, non ancora Parma, c’è da lavorarci molto.

Prossimi progetti?

Credo di essere arrivata, dopo 19 anni di carriera, alla fine di un percorso personale e sento di essere pronta per un passo successivo. È  come se nella mia valigia ci fossero dentro oramai tutti gli strumenti acquisiti di questi 19 anni, pronti per essere usati per il futuro. Quindi mi sto dedicando a sviluppare i miei prossimi due film da regista, esordio finalmente nel lungometraggio, uno sempre di animazione e l’altro in live action. Il primo è TURANDOT-Princess of China, che è un adattamento dell’antica favola persiana e dell’opera di Puccini e sarà l’occasione per trattare il tema della condizione della donna. Da anni faccio ricerca sia iconografica che storica su questo argomento, anche perchè ho un debole per l’Oriente e la Cina. Quindi musica, cinema e teatro si fonderanno con una attentissima ricerca estetica. L’altro è THE OPERA SON-IL FIGLIO DELL’OPERA, che è ambientato tutto in Emilia nel 1944, ed è la storia dell’amore per il teatro che un bambino scopre attraverso le trame delle opere di Verdi che il padre gli racconta in maniera ironica, e si rifà alla antica tradizione emiliana del Teatro di Stalla, che ho scoperto e sto studiando.

TAG: animazione, Butterflies in Berlin, Cloud atlas, intervista, Monica Manganelli, Video installazioni, Visual Artist
CAT: Cinema, Teatro

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