Arte
Luminarie con simboli massonici a Bologna, monta la protesta: a che scopo?
Molto chiasso fra ricordi malsani e ‘installazioni artistiche’, in quel di Bologna. L’amministrazione di Palazzo d’Accursio ha infatti deciso di illuminare le celebrazioni natalizie con l’opera dell’artista genovese Luca Vitone, recente protagonista nel 2013 del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.
L’opera, intitolata Souvenir d’Italie, come ha spiegato lo stesso Vitone nasce «da una visita ad una mostra di De Chirico dove un dipinto del 1915» che l’ha condotto a pensare «come in questa atmosfera metafisica cambino i paesaggi e gli sfondi, ma ci sia sempre un’attitudine che non ci fa superare certe situazioni che ci permetterebbero di modernizzare l’aspetto culturale e sociale del paese».
«Quest’idea di passato/futuro inamovibile mi ha fatto pensare che fosse il tempo di raccontare un evento passato come quello della P2 –ha aggiunto Vitone- evento determinante per quello che è successo nel nostro paese. In una mia mostra a Parigi avevo presentato una lapide in marmo con l’immagine dell’occhio nel triangolo incisa, accostata ad una lapide su carta con un’iscrizione, come quelle dedicate ai figli della patria, solo che elencava i 162 iscritti alla loggia P2. Questo per evidenziare una realtà che esiste e come cittadini italiani dobbiamo sentirci responsabili della sua presenza e rivelarla. Quando mi hanno proposto di lavorare qua ho pensato al giorno in cui è scoppiata la bomba in stazione centrale, avevo 16 anni e fu un trauma drammatico. Mi sembra interessante e utile, anche per non dimenticare, riproporre quel lavoro parigino in forma diversa, in modo che fosse visibile all’esterno e, data la stagione, la luminaria, materiale che non avevo mai affrontato, mi sembrava adatta per il lavoro. La posizione mi sembra perfetta vista la facile accessibilità, inoltre passa sui binari che conservano i ricordi dell’agosto 1980».
Forse sarà un problema mio, solo che di fronte alle conferenze stampa di molti artisti rimpiango le dichiarazioni dei calciatori a fine gara, quelle tipo «d’ora in poi saranno tutte finali» o «soddisfatto per me ma soprattutto per la squadra», in quanto non ti arricchiscono di spiegazioni semplicemente perché non hanno velleità nel farlo. Qui invece c’è il rischio di entrare in una dichiarazione cercando una ragione valida, un motivo, un tema che sia chiaro al pubblico, e poi trovarsi intrappolati in un labirinto di parole senza riuscire a trovare una via d’uscita. Un labirinto in cui la P2 diventa “un evento passato”, quasi fosse un anniversario, una fotografia, un compleanno, un’azione impersonale. Non un evento come tanti certo, “un evento determinante”, soltanto che l’evento –in fisica, in statistica, in grammatica italiana- è qualcosa che è inserito in uno specifico punto dello spazio quadridimensionale, in un ben definito lasso di tempo, qualcosa che ha un’origine e una fine certa.
L’iniziativa è stata patrocinata e organizzata dalla Fondazione del Monte e da BO ON, campagna prenatalizia promossa dal Comune in collaborazione con l’associazione Bologna Welcome, la Camera di Commercio, la Confcommercio e il CNA locale, dove «pubblico e privato fanno sistema per promuovere e valorizzare la città», come si legge sul sito di presentazione.
Alla conferenza stampa del 12 dicembre erano presenti anche le ‘teste pensanti’ di ON, la curatrice Martina Angelotti e la coordinatrice Anna de Manincor: «ON è nato nel 2007 per volontà mia e di Anna de Manincor con l’idea di lavorare sul tessuto urbano in una maniera attiva e partecipata nella creazione di opere site specifiche pensate per la città – ha commentato così la Angelotti, non cambiando certo la criptica del registro usato da Vitone- Gli anni scorsi era stata utilizzata Piazza Verdi come museo a cielo aperto, negli anni ci siamo allargati ad altri spazi urbani come architetture e altre piazze». D’altronde l’iniziativa è inserita nella più ampia rassegna che vedrà l’esposizione di altri due artisti, Alexandra Pirici e Manuel Pelmus, che entreranno in scena a gennaio:
«Il progetto quest’anno – a detta sempre di Martina Angelotti – ha come titolo “Do Elephants Ever Forget?” perché anche se gli artisti sono molto diversi tra loro, lavorano entrambi sulla conservazione della memoria. In particolare quello di Vitone su ponte Galliera nasce con un titolo, Souvenir D’Italie (lumières), basato su un percorso che stiamo portando avanti da diversi anni: il concetto di souvenir e lo sguardo sull’italianità socio politica. L’opera è composta da tre sculture luminose che rappresentano tre simboli molto presenti nel nostro immaginario e che hanno attraversato la storia e la simbologia attraversando religioni e movimenti e si sono stanziati in maniera diversa nella memoria di ciascuno. La luminaria è un progetto che Luca ha deciso di fare utilizzando un linguaggio, quello della luce, che ha sempre caratterizzato ON ma che non era una richiesta specifica. Ha deciso di confrontarsi con lo stereotipo classico della luminaria, anche visto che siamo nel periodo giusto, e perché ricorda le feste religiose del sud Italia».
Tutto chiaro? Pare di no, e anche sforzandosi di considerare la mia come opinione ci si può accorgere come il messaggio sociale dell’opera non sia universalmente recepito. Per carità niente di cui scandalizzarsi, d’altronde il concetto del “per molti ma non per tutti” non è soltanto prerogativa di spot pubblicitari su spumanti anni Ottanta. Ciò che stona è la poca efficacia di un messaggio che poi dovrebbe essere l’unico reale movente che potrebbe spingere un artista, una Fondazione e un Comune a guardare con soddisfazione luminarie esoteriche sospese sul Ponte Galliera – o via Matteotti– pretendendo per giunta di rinverdire la memoria di gente a cui nessuno ha neanche spiegato perché quel ponte abbia due nomi, e che cosa sia la Galliera.
Certo poi qualcuno capirà che la Galliera è un titolo nobiliare proprio del bolognese ma con discendenza francese, che fu creato appositamente da Napoleone in onore di Giuseppina de Leuchtenberg, figlia di Eugenio di Beauharnais, Viceré d’Italia, Principe di Venezia, fondatore della Borsa Valori di Milano presso il Monte di Pietà nonché Granduca di Francoforte e primo Gran Maestro della prima obbedienza massonica su suolo italiano –ma di estrazione d’oltralpe- , fondata appunto dallo stesso Napoleone nel 1805: il Grande Oriente d’Italia.
Passa dunque il messaggio di “opera per la collettività” nonostante si associno simboli esoterici universali a un ramo specifico della massoneria deviata, il cui gran maestro –Licio Gelli– non aveva neanche tutte le competenze necessarie per guidare, e che formalmente dipese – almeno fino all’ottobre del 1981- dal GOI, nonostante quest’ultimo pare fosse ignaro delle malefatte antidemocratiche piduiste.
L’opera per la collettività, dedizione ancestrale della Fondazione del Monte che nasce nel 1473 come Monte di Pietà francescana e che col tempo si trasforma –come tutte le altre rimaste ancora in vita- in Istituto di credito vero e proprio. I monti di pietà infatti nascono nel Quattrocento per ottemperare alla salvaguardia delle persone indigenti attraverso la piccola elargizione di credito e al contempo per garantire la sopravvivenza di ordini religiosi mendicanti all’epoca in crisi –soprattutto appunto i Francescani osservanti. Esemplificativa fu ad esempio l’ondata di antigiudaismo che seguì la creazione dei Monti di Pietà, secondo la convinzione che gli ebrei avessero in mano il mondo dell’usura e paventando la necessità di eliminare tale flagello – o sostituirsi ad esso. Nel frattempo questo percorso così tipicamente italiano nel corso dei secoli ebbe a creare quella peculiarità belpaesiana che va a caratterizzare le cosiddette Opere pie, istituzioni religiose d’assistenza e beneficenza rimaste in vita nella loro forma religiosa grazie ai Patti Lateranensi che le distaccarono dal contesto temporale (1929)
Il Monte di Pietà di Bologna, come altri, raccolse dunque l’eredità degli ordini cavalleresco-religiosi nati sul finire dell’Alto medioevo, i primi ad unificare valori religiosi con esigenze civili, economiche e militari, e considerati il primo vero esempio di banca occidentale. Scrive Marco Poli, ex Segretario generale della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna fino al 2006:
«Alla fine dell’800 il Monte aprì nuovamente delle filiali, soprattutto in zone periferiche e povere della città, per venire incontro alle esigenze della clientela: una filiale fu aperta in via del Pratello.
Nel corso del ‘900 il Monte di Bologna continuò la sua costante espansione: nel 1964 assunse la denominazione di Banca del Monte di Bologna e Ravenna avendo assorbito l’Istituto ravennate e quello di Bagnacavallo. Nel 1991 la Banca del Monte di Bologna e Ravenna (1139 dipendenti e 68 filiali) e la Cassa di Risparmio di Modena si fusero dando vita a Carimonte Banca spa.
In quella circostanza nacque la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, istituto non profit con la missione di operare a favore della collettività bolognese e ravennate attraverso il sostegno per la tutela dei beni artistici e culturali e finanziando iniziative di carattere sociale a beneficio dei cittadini.
In seguito si ebbe la fusione con il Credito Romagnolo (Rolo Banca 1473) ed infine l’aggregazione all’interno del nuovo soggetto Unicredit. A 540 anni di distanza, degli oltre 100 Monti di pietà fondati a partire dalla metà del ‘400, non ne esistono quasi più dopo le fusioni avvenute a partire dagli anni ’90 del secolo scorso.
Lo stesso Monte dei Paschi di Siena, oggi protagonista delle cronache, non fu un Monte di pietà fondato dai francescani; si chiamò Monte Pio e nacque in polemica con la visione francescana. Basti pensare che ai prestiti veniva applicato il tasso del 7,50%».
Lasciando perdere il Monte dei Paschi, concentriamoci invece su questa Fondazione figlia del Monte e della Pietà e madre delle luminarie: il presidente, il professor Marco Cammelli, è stato professore ordinario di diritto amministrativo all’Università di Bologna, tecnico coordinatore presso la Presidenza del Consiglio dal 1997 al 2000, componente del Consiglio della Corte dei conti dal 1998 al 2001 e componente del Consiglio di Stato dal 2005 al 2009. Grande amico di Fabio Alberto Roversi Monaco, già Magnifico rettore dell’Università di Bologna, giurista di fama nazionale e ora Presidente della Banca Imi, la banca d’investimento del gruppo Intesa Sanpaolo guidata dall’amministratore delegato Gaetano Miccichè.
D’altronde Alberto Statera nel suo pezzo “Cofferati e i tre poteri di Bologna” uscito su Repubblica nel febbraio 2007 inquadrava la situazione a modo suo:
Dicono in città che non si può capire Bologna se non si completa la triade del potere: comunismo, finché c’era e ora quel che ne resta, chiesa e massoneria. Il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Gustavo Raffi, ravennate, è appena venuto, ma non si sa se ha incontrato quello che da decenni è considerato il Cagliostro locale. Fabio Roversi Monaco, rettore storico della più antica Università d’Italia, ricca di 70 mila studenti, adesso da presidente della Fondazione della Cassa di Risparmio, distribuisce denari, per cui è più potente di prima, tanto più che fa ticket col parente Marco Cammelli, dirimpettaio del Monte. “Dalla massoneria mi dimisi nel 1985, in tredici anni ho incontrato solo galantuomini, ma dall’essere massone ho avuto un danno enorme”, giura Roversi Monaco. Andate, per favore, a raccontarlo al suo successore Pier Ugo Calzolari, per il quale i tre pregressi lustri roversiani sono un incubo, non foss’altro che per le decine lauree ad honorem clientelari che l’università distribuiva a piene mani.
Qualcuno che passerà vicino alle luminarie capirà, qualcun altro no, qualche altro ancora farà finta di non capire. Senza parlare di chi se ne disinteressa, e di chi è davvero convinto che quei simboli –come riportato dai giornalisti annebbiati dal tourbillon delle conferenze stampa a sfondo artistico – siano propri della P2 e siano lì per la cittadinanza, laddove la cittadinanza non capisce e laddove nessuno aiuta a comprendere. Per ora infatti solo divisioni, polemiche e gran vociare tra chi ritiene l’installazione inopportuna, chi la ritiene brutta, chi fuori luogo e chi semplicemente non ritiene.
Come sempre accade in questi casi ci troviamo di fronte a supercazzole e contraddizioni, a partire dal presidente dell’Associazione Vittime Bologna 1980, Paolo Bolognesi: «Mi è piaciuta da subito, perché dava un messaggio forte –ha detto Bolognesi – Ma a chi me l’ha proposta, ho presentato da subito alcune mie perplessità». Gli è piaciuta subito insomma, ma ha perplessità perché «il rischio è che simboli legati esplicitamente alla massoneria siano scambiati per addobbi natalizi», fermandosi però alla perplessità e non evidenziando la risposta che può essergli stata data da quel «chi me l’ha proposta» che recitava il ruolo di interlocutore.
Chi può spiegare perché, in maniera chiara ed esaustiva? Chi si può incaricare di sforzarsi di rendere chiaro il messaggio a tutti, se il messaggio è per la collettività? Se non ce l’ha fatta Vitone, se non ci è riuscita la Angelotti, se il dirigente della Fondazione del Monte Adelfo Zaccanti in sede di presentazione non è entrato nel merito del messaggio, chi ci riuscirà? Questa appare l’evidenza più stridente con il contesto: in sostanza, se l’intento era quello di installare consapevolezza e di rinverdire la memoria, la missione mi pare francamente fallita. Anche perché si può rinverdire una pianta essiccata ma non si può rinverdire un deserto mnemonico, dato che si parla azioni/non azioni compiute da un’associazione –e non un ‘evento’- di uomini in un contesto mai pienamente verificato e mai pienamente verificabile.
E allora ci troviamo qui a dover comprendere luminarie che non illuminano e a dover ricordare fatti che non si raccontano, perché insomma, se «il rischio è che simboli legati esplicitamente alla massoneria siano scambiati per addobbi natalizi», nessuno si è domandato chi abbia deciso di mischiarli ad addobbi natalizi. Comunque nulla di cui preoccuparsi: questo pensiero-si sa- dal 13 dicembre al 31 gennaio occuperà i pensieri dai tre ai sette secondi, non di più: di solito sono questi i tempi stanziati per la collettività.
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