Teresa, il fascino discreto dell’antimafia che non urla
Era un pomeriggio di pioggia antipatica, quel giorno di novembre in Calabria.
Di quella ragazza, fino a quel momento, avevo osservato il silenzio.
Eppure, quello era un viaggio in cui si urlava: no alla mafia! No al pizzo!
Tornavamo da Reggio Calabria, dove 80% delle imprese paga il pizzo alla ‘ndrangheta. Noi avevamo incontrato chi resisteva: un viaggio per capire quanto è difficile dire no, quanto vale quel no in terra di mafia.
Ragazzi adesso andiamo a prendere il gelato da Totò….
Professoressa ma siamo sicuri che Totò non paghi il pizzo? Altrimenti diamo i soldi alla ‘ndrangheta!
Guarda, per me può pagare anche il pizzo, ma il gelato di Totò è il più buono di tutti…e io non ci rinuncio!
La risposta della mia professoressa, esperta nazionale di mafie –e soprattutto importante militante antimafia- mi aveva un po’ confuso.
Teresa stava nel sedile di fronte a me, sola: guardava fuori, quella terra che conosceva benissimo e di cui sentiva il battito, a differenza di noi venuti laggiù solo a osservarne le ferite esteriori.
Intorno, in quel vociare confuso, spiccava la più antipatica delle comari: la presunzione. Pensare di aver capito.
Di certo, era una guerra: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra.
Non tutti i buoni sono uguali però: qualcuno urla, qualcuno sta in silenzio.
Parlare allora, finalmente. Non chiesi di tuo padre, Teresa, chiesi di te. Chi eri, cosa volevi.
No, non eri come gli altri. Mai retorica, mai auto referenziale, fino all’ultimo giorno ci avevi tenuto nascosta la tua storia.
Poco prima, ti eri prestata all’intervista di un giovane giornalista alla ricerca del sensazionale con la stanchezza di chi sa che non verrà compresa, con la stessa sensazione di una donna che è bella e sa che per questo rischierà sempre le volgarità dei viscidi.
E’ strano questo tempo, Teresa, è strano questo mondo: viene più facile gridare slogan, che capirli. Viene più facile riempirsi la bocca di una guerra come la tua, che chiederti come la vorrai combattere.
Studentello di legge pieno di verità in tasca, quel giorno ho imparato da te il diritto più importante, il diritto non scritto: quello di presenza.
Lottare per esserci, per rimanere. Te l’ha insegnato tuo padre: non aveva cambiato il percorso casa-lavoro, né l’indirizzo, né la serratura. Soprattutto, non aveva cambiato se stesso. Ci sono, rimango, non mi cambierete. E, io, tua figlia, non alzo né il pugno né il braccio, non sventolo agende rosse, non porto bandiere. Non farete di me un trofeo.
Non avevamo capito niente. Finito il viaggio, ci fu una polemica con le nostre accompagnatrici: lamentarono l’assenza di sorrisi, lacrime, grazie, persino un silenzio imbarazzato.
“Vedi?”, mi scrivesti poco dopo, “ Come si fa a misurare il valore di un’esperienza in termini di sorrisi, lacrime, eventuali adulazioni? Nessuno è tenuto a mostrare le proprie emozioni…aspettarselo per forza vuol dire solo una cosa: invitare all’ipocrisia”.
Commuovere, piangere, colpire: non era il giovane giornalista alla ricerca del sensazionale a essere sbagliato, è che il mondo dei buoni è fatto strano, cara Teresa. Piangi un po’ anche tu, dai! E fallo con noi, ti aiuteremo! Ti sentirai meglio.
Eppure, non predicavi l’assenza di emozioni. Contestavi il metodo.
Volete piangere, sventolare, ballare? Fatelo pure! Però, ve ne prego, assicuratevi di aver capito.
Note a margine: Teresa è un nome di fantasia. Laureata in legge, svolge la professione di avvocato, preparando al contempo il concorso in magistratura.
Il padre, imprenditore edile, è una vittima della ‘ndrangheta: non si era piegato al pizzo, nonostante anni di minacce, incendi di automezzi, fucilate alle porta di casa. L’hanno ammazzato tornando da lavoro, alla presenza di uno dei figli.
I fratelli di Teresa continuano a condurre l’attività di famiglia.
Ancora ricevono minacce e richieste di pizzo, nella totale assenza delle Istituzioni e della comunità locale.
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