Letteratura
La strada di Wigan Pier, una romanzo attuale per non dimenticare il proletariato
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Questo romanzo è una discesa negli inferi, nella bruttura della condizione umana di chi conduce una vita che si trascina, che vive anzi sopravvive, e stenta a tirare avanti. Un’ esistenza in cui la sporcizia, il puzzo, il sudiciume è condizione esistenziale non straordinaria ma rappresentativa del modo di vivere di poveri cristi costretti a campare in una pensione squallida e a fare un lavoro altrettanto squallido.
Siamo a Wigan Pier, un molo per il carico e lo scarico del carbone, Orwell vi si reca nel 1936 per realizzare un’inchiesta sul campo, vuole trasformare l’ideologia in carne, vivere come i minatori, condividere le loro condizioni di vita per poterne parlare onestamente con cognizione di causa.
La pensione dei Brooker è quanto di più lontano uno si aspetterebbe da una pensione. L’ambiente non era né caldo, né confortevole, era l’avamposto di un mondo esterno altrettanto duro. La stanza in cu dormivano gli ospiti era un dormitorio, i letti erano piazzati in modo che Orwell non riusciva a stendere i suoi piedi, per fortuna Mr Relley, che lavorava in superficie in una miniera di carbone, si alzava alle cinque del mattino concedendo, perciò, allo scrittore la possiblità di stendere le gambe per un paio d’ore.
C’era chi del letto faceva una casa poiché impossibilitato a muoversi: Hacker stava morendo di tumore, si alzava solo per riscuotere la misera pensione di 10 scellini. Come Jack, l’altro vecchio pensionante, era stato buttato fuori dalle case popolari dal Means Test (analisi dei mezzi di sussistenza di una famiglia volta a ridurre o tagliare i sussidi del welfare); c’era, poi, un minatore scozzese rimasto infortunato in un pozzo minerario dopo essere stato inchiodato al terreno da un grosso frammento di pietra, e infine, Jo, un disoccupato.
Il letto a due piazze, il migliore, veniva utilizzato come specchietto per le allodole. Il lampadario era ricoperto da un cumulo di polvere, il tappetto era intriso dell’odore dei vasi da notte. La cucina possedeva un’enorme stufa a carbone che alimentava i fornelli e che era accesa di giorno e di notte con un divano deformato su cui era seduta la Signora Brooker, perennemente malata e avvolta in coperte sudicie. Il tavolo ricoperto da vecchi giornali macchiati di salsa, e da due diversi tipi di tovaglie che non venivano mai cambiate, era sempre piena di briciole. Il divano bloccava la porta della dispensa dove veniva conservata la trippa che si diceva fosse piena di scarafaggi poiché gli intervalli tra una consegna e l’altra erano lunghi. Il proprietario, il Signor Brooker, che gestiva negozietti come attività secondaria, non si lavava mai le mani, quando porgeva una fetta di pane e burro, lasciava l’impronta nera del suo pollice. Al puzzo, al cibo ignobile, si aggiungeva la sensazione di stagnante decadenza, frutto della civiltà che li aveva prodotti, frutto dell’industrialismo.
Il dovere di guardare, anzi di annusare quei posti serve a non dimenticarli: le slum house della periferia si trovavano circondate da un paesaggio di cumuli di scorie, di ciminiere, di rottami ferrosi, fumo, altoforni, canali fetidi, fango puntellato da impronte di zoccoli. Le persone che ci vivevano non aveva il volto inebetito dalla rassegnazione dell’animale, comprendevano quanto terribile fosse la loro sorte.
Le cose che si immaginano dell’inferno è presente nella miniera: il calore, il frastuono, la confusione, l’oscurità, l’aria fetida e soprattutto gli spazi tremendamente angusti. Gli uomini erano spesso nudi ed in ginocchio -tutto lo sforzo ricadeva perciò sulle loro braccia e muscoli addominali – che spalavano quantità mostruose di carbone con forza e velocità incredibile e lo lanciavano sopra la propria spalla, lo caricavano, poi, sulla catena di trasporto. Erano circondati dalla povere di carbone che riempiva narici e gola, si condensava sulle ciglia, aderiva ai loro corpi, tra il rumore incessante del nastro trasportatore. Lavoravano per sette ore e mezza senza fare pause tranne il quarto d’ora della pausa pranzo, masticavano tabacco per prevenire la sete alla profondità di quattrocento metri nel sottosuolo e prima di iniziare a lavorare dovevano attraversare, strisciando, per due fino a cinque chilometri di gallerie strettissime dove di rado si riusciva a stare in piedi. Molti di loro avevano i “bottoni giù per la schiena” ossia una crosta perenne su ogni vertebra perché sbattevano spesso con la schiena nuda contro le travi, e cicatrici azzurre sul naso poiché la polvere di carbone penetrava in ogni taglio; i più anziani sembravano, a causa di quelle venature, un formaggio Roquefort. Lo strisciare all’andata e al ritorno che per ogni persona normale avrebbe rappresentato una giornata di duro lavoro – con il carico di dolore alle cosce e alle ginocchia, arti anchilosati dal dolore che il minatore irrobustito non sentiva più- non veniva considerato lavoro, non era pagato, era semplicemente un extra come un viaggio in metropolitana per un impiegato della City. Oltre a questo tempo supplementare di quindici chilometri, un’ora o due tra andata e ritorno all’interno della miniera, c’era da aggiungere il tempo che il minatore impiegava per recarsi a casa.
Molti di loro erano bassi e nascondevano lo splendore dei loro corpi allenati.
La classe operaia descritta da Orwell rappresenta lo squallore senza il quale la borghesia o gli intellettuali come lui non avrebbero potuto vivere, è l’ultimo scalino dell’umanità sfruttata, ridotta alla miseria, non tanto economica, ma di deprivazioni di ogni diritto. Persino quando si lavano, togliendosi il puzzo e la polvere di dosso, possono farlo fino alla cintola, trascurando di lavare le parti basse perché la cucina affollata di mobili e bambini non può contenere una tinozza abbastanza larga da consentire loro un bagno completo. La parte superiore, quella ripulita, rappresenta il mondo, l’altro, quello accettato, quello esistente e per i quali sono previsti diritti e riconoscimenti, l’altra parte, quella che resta sempre sporca, rappresenta il mondo del minatore, che come un cane, lavora a quattro zampe, come un serpente è costretto a strisciare nel sottosuolo, nei bassifondi di un’umanità orribile, invisibile. Di loro ci si dimentica, nonostante l’innegabile utilità, come ci si dimentica che il sangue scorre nella vene, al punto che, osservandoli, Orwell comincia a dubitare del suo status di intellettuale, di persona che si considera superiore perché capisce che l’esistenza di persone di alto rango è legittimata solo dal fatto che esistono i perdenti, i reietti. Sono quei fisici d’acciaio, irrobustiti da un lavoro sovrumano, quella polvere, quella sporcizia a consentire al mondo di sopra di poter mantenere la propria posizione e prestigio sociale.
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