Musica

La musica bisestile. Giorno 46. Pink Floyd

28 Settembre 2018

ATOM HEART MOTHER

 

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Immaginate un pomeriggio di prima estate, nella veranda di Vittorio Coronati, al Lido dei Gigli. Troppo presto per qualunque cosa, gli amici sono chiusi in casa per la pausa pranzo, fa troppo caldo per mettersi a correre in bicicletta, nessuno in giro per il ping-pong, e Paolo Dentice, una volta in più, mi lascia ascoltare i suoi dischi. Ce n’è uno che non ho mai tentato di suonare, perché ha una stupida mucca sulla copertina, ed a me non piace il verde, è brutto e mi ispira sfiducia. Come tutti i bambini, non mangio ciò che ha un aspetto sbagliato.

“Atom Heart Mother”, 1970

Chissà dove ho la testa, apro distrattamente la copertina di uno dei dischi degli Uriah Heep, e quella di un romanzo di fantascienza di Urania. Nel disco, invece delle solite note di rock, si sentono sibilare sommergibili e di colpo, dalla nebbia del Mare del Nord, nero come la paura dei film sui nazisti, escono carri armati, navi, esplosioni, e decine di fiati ed archi, un parossismo di suoni in crescendo e poi, bum, di colpo, tutto cala ed esce la musichetta della pubblicità del Cynar o del Fernet, vattelapesca. Qualcuno ha confuso due dischi, rimettendoli a posto, questi non sono gli Uriah Heep, ovviamente. Ma guarda, è il disco della mucca. Ora c’è un coro femminile lontano, che si avvicina, mi avvolge, cresce, ed esprime, nel mio cuore, un senso di pericolo, di guerra, di alienazione.

Sono completamente affascinato da questa musica che non assomiglia a nulla di ciò che conosco, e che percorre con baldanza linee apparentemente sconclusionate (ho imparato poi che tali erano, il brano nacque infatti in seguito a sovrapposizioni in gran parte casuali). Mi viene in mente che avevo già ascoltato un disco dei Pink Floyd e che lo avevo trovato noiosissimo. Il disco si chiama “Wish you were here” e l’ho ascoltato a casa di Daniele Bevar, in cima alla Cassia. Brani lentissimi, sempre uguali, nulla che facesse al caso mio. Ero troppo giovane, ancora. Ma oggi il mondo è improvvisamente cambiato.

Finita la suite, giro il disco, e stavolta mi innamoro. Il giro di chitarra di “If” è flebile, nostalgico, romantico, ed il testo, che parla dei rimpianti di ciò che non ho saputo darti, parla dritto al mio cuore; “Fat old sun” sono le passeggiate da solo a Villa Carpegna, sognando di avere con me una ragazza che mi vuole bene; “Summer of 68″ la più bella canzone dei Pink Floyd, ancora adesso, per l’anima di quel bambino che ero e che tentava, rocambolescamente, di schitarrare così che assomigli, in qualche modo. Quanto poi ai suoni raccolti sul co-produttore Alan Parson mentre fa colazione, contribuiscono a darmi l”impressione che l’intero disco sia stato concepito, scritto e registrato su un’astronave, o in un sommergibile. Qualche giorno dopo, in TV, trasmisero il concerto a Pompei. Wow. Ma resto dell’opinione che il mio cuore di bimbo avesse ragione: questo disco è unico e straordinario, non importa se sia stata la produzione stratificata a funzionare. Qui l’influenza di Rick Wright è ancora superiore a quella di Roger Waters e Dave Gilmour. Benissimo così.

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