
Teatro
“Don Chisciotte” a Ravenna, le lotte solitarie di un Cavaliere Errante
RAVENNA – La più bella. Perché è misteriosa. Nelle scatole cinesi congegnate da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per rileggere il romanzo “Don Quijote” di Miguel de Cervantes, la terza anta proposta – con tutte le parti dell’opera allestite nell’arco di tre anni (dal 2023 al 2025) nell’ambito di Ravenna Festival– in un’unica prova e conclusa nel teatro Rasi di Ravenna entro la metà di luglio, colpisce per la riflessione sul contemporaneo, spinta sino all’estremo come è nello stile e nella storia della compagnia del Teatro delle Albe. Il Cavaliere errante muore, una volta risorto. Risorge e muore dopo aver immerso centinaia di spettatori dentro una liquida e visionaria saga seicentesca che, in controluce, legge i fortunali del nostro evo. E’ questo un viaggio intrapreso sulle tracce di quello compiuto da Don Chisciotte, incamminatosi sui sentieri incerti della follia, dove la deformazione del tempo e dello spazio generano allucinazioni tali da modificare la realtà. Vicende epiche, che si addicono a un grande teatro dove la Chiamata pubblica dei cittadini ha il ruolo forte di testimone ma anche quello di attore di un racconto fantastico e popolare, sempre in tensione tra le stelle e la terra. Tra realtà e finzione. E’ nel gioco del teatro che tutto può essere ribaltato, addirittura rovesciato, fino a incontrare l’Altro da sé. Capita anche al Cavaliere (Roberto Magnani), sguardo a tratti spiritato, sul capo una bacinella a mò di elmo e un’asta a punta esageratamente lunga, con cui può dare la caccia a povere pecore e terribili giganti che muovono le pale dei mulini a vento.
Il reportage, nel rispetto dell’allestimento, ne segue le fasi salienti della sua messa in scena.
Prima anta. Un viaggio psichedelico.
L’inizio. La Compagnia o Confraternita della Realtà Sospesa, che si riforma sera dopo sera, diversa e uguale, entra nel nido materno colorato di rosa del Palazzo Malagola nella centrale via Roma. Maniero d’epoca dove stanno i costruttori di sogni. Questi scrivono, narrano, cuciono con macchine a pedali e distribuiscono racconti.
Come questo:
“Sogno che mi muovo con grandi balzi quasi a volare, salto giù dalle scale saltando intere rampe, faccio un passo che ne vale almeno tre e poi senza sforzo alcuno mi ritrovo in aria e avanzo così, toccando terra solo per darmi lo slancio e ripartire. Nella realtà non ho assolutamente l’agilità né la “leggerezza” fisica per saltare…”
Un po’ si sta dentro, un po’ si rimane fuori. Zigzagando tra i fantasmi della mente e allucinazioni dello spirito. Ed è come guardare dietro l’obiettivo di una cinepresa che gira un solo piano sequenza e nel travelling inquadra volta per volta: una stanza ingombra di grano con le messi che spuntano in una lattiginosa atmosfera da film noir, una famigliola seduta al desco mentre scodella la minestra e le galline che razzolano ai piedi. In un angolo c’è un televisore spento dcgli anni settanta, spento. Ancora: una bambina appare dietro un telo di tulle, un tavolo è ingombro di computer e fogli sparsi…, una infermeria di guerra rigurgita di soldati feriti stesi su barelle da campo, con le bende sulla testa. Tanti altri frame psichedelici fino a sorprendere una coppia di mezza età vista di spalle mentre si scambiano effusioni…
Si esce a “riveder le stelle” in un giardino dove si trova l’ingresso di una locanda. Ermanna Montanari alias Hermanita, come Marco Martinelli/ Marcus sono i due maghi che dovrebbero, come Virgilio con Dante guidare ma, ahimè, non conoscono il cammino, anche se, dicono: “possiamo ancora evocare… fantasmi!”.
Hermanita entra in scena agitando una marionetta che muove le labbra mentre la musica della banda Leda si mescola al canto delle cicale che annuncia la sera.
Siamo davanti ad uno dei luoghi impossibili dell’universo cervantino. E’ forse il palazzo incantato di Montesinos?
Esplode la musica e si scatenano le danze. Ed è tempo che Sancio (Alessandro Argnani), eterno secondo, parli. Rievoca il giorno in cui “quel nobile un po’ spiantato” l’aveva arruolato e confessa: “…l’ho seguito, cancaro che l’ho seguito, ho lasciato moglie e figli e l’ho seguito, e da quel giorno non son che bastonate e calci che buschiamo dappertutto, hai voglia te di combattere il male, questo poi, scambia i mulini a vento per delle multinazionali, li attacca con una furia mai vista, e per forza si rompe l’osso del collo, ci va a sbattere contro, insomma è pazzo e non lo dico solo io…”. E la bella Dulcinea (Laura Redaelli): “… io non sono che una contadina… Questo nobile spiantato si era innamorato di me, e io manco lo sapevo. Dulcinea del Toboso, così mi ha ribattezzata …” .
Ma “un Cavaliere Errante senza amore è un albero senza foglie, né frutti, è un corpo senz’anima. Un morto che cammina” si difende Don Chisciotte.
Marcus mette in guardia e avvisa di non credere a ciò che vedono. “I tre non sono quel che dicono”.
E chi allora? “Attori che portano maschere”. Don Chisciotte (o Roberto del Castillo) indicando gli spettatori erranti lo contraddice: “sono i caprai che ci hanno ospitato in questo tramonto di pianura”. E ricorda la felice età dell’oro in cui tutti i beni erano in comune e la parola “proprietà privata” non esisteva.
Don Chisciotte scioglie il filo della sua realtà. La evoca e la difende, immergendola in fantasie dell’assoluto. Il suo è un “realismo esistenziale” come lo definisce Américo Castro, studioso ed esperto di Cervantes (suo è il celebre saggio “El Pensamiento de Cervantes”). Sostiene che per comprendere Don Chisciotte bisogna avere la consapevolezza che la vita così com’è non basta e necessita della spinta della finzione per essere davvero reale. Altro che folle! Il Cavaliere la finzione la vive come se fosse realtà… Insomma, questo anti eroe nel difendere in modo compulsivo la libertà, riflettendo il “realismo esistenziale”, affronta la follia con la sanità mentale, gioca con entrambi fino alla confusione mostrando come è percepito il mondo esterno dallo sguardo di un pazzo.
Ed ecco spiegato il suo intervento per liberare i carcerati che vengono condotti alla prigione da un commissario armato. Li libera, ma sua volta viene percosso e inseguito dai “liberati”, interessati piuttosto a fuggire che rendere omaggio alla sua Dulcinea. Eh sì… è una delusione.
Un po’ come i nostri sogni che, ricorda Marcus, finiscono nel cestino. “Quei sogni da ragazzi di cambiare il mondo, più giusto e più bello… Invece non è andata così. E il mondo è ancora preda di un “malvagio stregone”…
Perchè non ha funzionato? Invece il pianeta va come va e dappertutto ci sono guerre. Don Chisciotte scuote la testa. Qualcuno rievoca il suo discorso contro la polvere da sparo. E il Cavaliere ha un guizzo.
“Benedetti quei secoli -così dice- quei fortunati secoli in cui la polvere da sparo non era ancora inventata”. E poi venne l’archibugio. Il Cavaliere Errante non si capacita che “a partire da un fuciletto… il mondo sia diventato una polveriera, una pentola immensa pronta ad esplodere! Umanità, rispondi! Vuoi far la fine dei topi in trappola? Vuoi finire bollita come la rana? Maledetti gli eserciti! Maledette le armi! Maledetto me che non le maledico abbastanza!” .
Ma ora è tempo di fuggire. Vogliono bruciare tutti i libri di Don Chisciotte, tutti i libri del mondo. Dai Vangeli al “Candido” di Voltaire. Commenta Hermanita:
“Si comincia sempre così
Si comincia con quattro libretti
Zitti zitti
Un fiammiferino
Uno zolfanello
La carta non fa rumore
Brusar dieci libri
Che vuoi mai che sia? …”
Seconda anta. Nel mezzo del cammino. La ragazza di Algeri.
Il cielo è già trapuntato di stelle quando il drappello formato da Don Chisciotte, Sancio, Dulcinea e gli spettatori erranti fuggiti al rogo dei libri dopo aver incontrato un pittore che disegna in bianco e nero sui muri, condotti dal mago Marcus, entrano nel palazzo in rovina di Teodorico sulla principale via Roma a due passi da quello di Malagola. Sul prato un gruppo di giovanissimi, all’arrivo del mago abbandona il campo.
Inizia un’autocoscienza pubblica che vede al centro gli stessi attori Roberto do Castillo, Aleandro Argnàn e Laura del Ross intrecciare il loro status di artisti e di uomini, la propria quotidianeità a confronto con il teatro e la vita stessa. Ma i singoli problemi da risolvere così come quelli della stessa categoria di lavoratori dello spettacolo si intreccia strettamente, storicamente e politicamente con quanto accade nel nostro Pianeta. Abbiamo avuto l’illusione di poter vivere in pace e no. Non è proprio così. Anche nella nostra vecchia Europa fermentano nuovi odi e si uccidono tra loro gli uomini.
Marcus: “anche qui/ in questa parte di mondo/ incombe la tragedia/ qui tra un po’/ ci tirano le bombe/ ci fanno a pezzettini/ fanno di noi poltiglia/ ci fan saltare per aria!”
Un salto temporale e dal 2025 si torna al 1616, al tempo di Chisciotte e Sancio Panza. Qui le inquietudini e le diatribe d’attore si intrecciano con quelle dei personaggi della storia di Cervantes. Sancio lancia strali a Don Chisciotte che è convinto di avere in testa l’elmo di Mambrino ma Sancio afferma che un giorno la userà per farsi la barba. Roberto Do Castillo a sua volta velenoso accusa il collega di non essere sempre preciso e al ritmo giusto quando si lavora. E ne ha pure per Laura del Ross che ”non sa variare un tono”. E da qui le accuse a Sancio di “fornaio mancato” a Laura che a sua volta sbeffeggia Roberto: “mediocre Don Giovanni da bar”…
Questa linea di continui rovesciamenti e di gioco del teatro nel teatro sono ancorati saldamente ad una attenta lettura del contemporaneo in cui le Albe, sono maestre nel costruire trame che si possono leggere in modo popolare – il plot è aggiornato continuamente alla storia dei nostri giorni- ma sempre intessuto di temi e significati dal significativo spessore filosofico. Anche con Don Quijote, come è accaduto con la “Divina Commedia” , questa compagnia indaga la realtà del nostro tempo trasmettendo con oculatezza messaggi eminentemente politici. Fatti di urgenza e passione chiedono di non lasciarsi spaventare dalle avversità e dagli attuali mali del mondo, ma di reagire prendendo nelle proprie mani il destino, condividendo gli stessi sentimenti di equità, solidarietà e amore per la pace come per la giustizia e l’ecologia.
Ecco così a chiudere questo spezzone il racconto della bambina di Algeri introdotto da Hermanita che narra di una bambina senza nome, rapita dal suo villaggio a tredici anni, stuprata e costretta a prostituirsi in un bordello. Condivide la stessa storia di cento e cento altre donne. “Uno straccetto afferrato e poi buttato via nella desolazione di questo mondo” esprime con amarezza Hermanita. Ed è la stessa bambina che è venuta a parlare dei suoi terribili anni di violenza e sopraffazione. “Ora giaccio sul fondo di un lago. Io e la mia bambina. Invisibile ai vostri occhi e a quelli del mondo. Da qui il cielo non si vede. Non vedo le nuvole”.
La seconda anta è chiusa. Ma resta sospeso l’interrogativo che Marcus ha rivolto al pubblico degli spettatori erranti.
“Cosa ci faccio qui? Cosa ci faccio in questa latrina di mondo, nato per Caso in quel posto o in quell’altro, in un palazzo signorile o in una baracca di lamiera, con questa faccia e questo corpo, a recitare questa o quella parte, ricco sfondato o miserabile, santo o assassino, Don Chisciotte o Don Giovanni, arriva sempre il momento in cui la maschera cade, e siamo travolti da un branco di bestie sataniche che ci urlano nelle orecchie, iene e lupi feroci che son lì lì per divorarci, e allora non ci crediamo più….”
Terza anta. Ultima fermata.
Il viaggio volge al termine. Spettatori Erranti, attori autentici o maschere, personaggi del romanzo sono tutti là davanti a quello che appare l’ingresso di una chiesa sconsacrata. E’ il Teatro Rasi, sede delle Albe, per secoli abitato dalle clarisse e trasformato da Napoleone Bonaparte in una cavallerizza. Le porte si aprono per accogliere i viandanti del teatro: c’è una lunga tavola imbandita con pane profumato, acqua e vino per rifocillare gli appettiti e gli animi e poi ripartire. Qui viene collocata la vicenda del matrimonio tra il ricco ed anziano Camaccio e la giovane Costanza figlia di due poveri contadini. Nozze combinate come si usava in tempo, senza tenere conto dei desiderata del cuore. Sì perchè Costanza è innamorata di Basilio, un ragazzo della sua età, disoccupato senza una lira che non può certo permettersi il banchetto offerto a tutto il paese dal viscido Camaccio. Il ragazzo si dispera e minaccia di togliersi la vita. Basilio compie l’irruenza e si mostra in pubblico mentre compie l’atto del suicidio chiedendo di poter sposare Costanza in punto di morte. Camaccio acconsente con magnaminità convinto che il ragazzo tiri le cuoia nel giro di pochi minuti. E invece no. Era tutta una messa in scena congegnata da Basilio che finalmente può stringere a sé la bella Costanza. Nozze celebrate dal curato con tanto di happy end finale.
L’intermezzo è poetico e popolare. La folla partecipa prendendo posizione volta per volta. Nell’intermezzo c’è anche una gustosa lezione di Don Chisciotte sull’arte e i fini dei cavalieri erranti. Il Cavaliere, in nome della giustizia fa sentire il suo autorevole parere riguardo le nozze appena celebrate e dice la sua sulla furia del ricco Camaccio che si è sentito raggirato. Ma per la prima volta Don Quijote, nel voler difendere il giovane Basilio appare in difficoltà nel confronto con il capo degli sgherri di Camaccio. Lui chè è lesto di spada e di lingua incespica e tentenna.
Incredibilmente arriva in soccorso del suo padrone, il fido scudiero che tira fuori proverbi alla rinfusa: da “Tanto va la gatta al lardo…” al preciso “il fine giustifica i mezzi”. Basta questa citazione di Macchiavelli per rianimare il Cavaliere che così sfida il potente signorotto che ha esibito la forza del suo portafoglio e cala il fendente: “E’ ragionevole un mondo dove ogni essere umano è una merce che si può vendere e comprare?”. Diventa incalzante. “A voi qui presenti lo chiedo: non vi fa orrore il pantano in cui andiamo affondando? O vi sta bene? Ma sì, in fondo, anche la palude di Sangue e Merda in cui siamo immersi ha un buon odore, basta… abituarsi! Basterà chiamarla con un altro nome! Sarà sufficiente scovare qualche paroletta alla moda per descriverla, la palude pestilenziale, sarà sufficiente qualche inquadratura patinata e sorprendente…”. La gente applaude e scatta i selfie pronta a postare il discorso del Cavalieri sulle reti social… Sembra quasi, a tratti una farsa brechtiana..
Ma questo spazio è davvero un teatro! Hermanita racconta.
“Questo spazio
La cripta, camera obscura, insula
Che voi ciamate TEATRUM
Non è che un’altra stanza
Un altro pertugio
Della famosa grotta di Montesinos.
Sì, o erranti
Non ne siete ancora usciti!”
Con un gesto Hermanita fa cadere giù il sipario che rivela la riproduzione vivente di un quadro, “L’incantatrice di serpenti” di Rousseau il Doganiere. Sul palco una adolescente è il ritratto di Hermanita da giovanissima. Le due si guardano come allo specchio ma come Hermanita si avvicina la ragazza scompare. Siamo di nuovo nel mondo incantato?
E intanto le “maschere” discutono tra loro. Chisciotte ringrazia Sancio per aver suggerito il proverbio che ha tolto il Cavaliere dall’empasse in cui stava nella discusiione con Camaccio e il suo sgherro. Da qui inizia una irresistibile ascesa di Sancio che diventa “un vulcano in eruzione… a nulla valgono i tentativi di fermarlo”.
Sicuro di sé, quasi irriconoscibile lo scudiero fa mostra di essere grintoso e di fine ragionamento. Tanto che si rivolge direttamente agli spettatori erranti. “E in commedia – dice-il più intelligente è il buffone, perché tutt’altro che sciocco è colui che fa credere di esserlo!”
Lo studioso cileno Vicente Serrano Marin in “Don Quijote, Hamlet y el cogito” annota che se “è vero che il peso del delirio sembra essere a carico di Don Chisciotte, il delirio di Sancio non è da meno, perché egli non ha mai le alterazioni della percezione che giustificano il delirio del suo padrone, eppure assume il discorso del suo padrone, anche a dispetto dell’evidenza e delle sue stesse affermazioni che ribadiscono continuamente che per lui non ci sono castelli ma ventas, non ci sono giganti ma mulini … e che spera con convinzione di governare l’isola che Don Chisciotte gli ha promesso. Il suo discorso realistico e giudizioso è trafitto dal delirio del padrone, e il padrone a sua volta è trafitto da frasi piene di senso e saggezza che a volte competono con quelle del suo scudiero.
Come nella tragedia di Shakespeare, la soggettività è solo un movimento oscillante che naviga nelle acque torbide dove si incontrano realtà, finzione e sogno. È il linguaggio, inteso come discorso dello spettro del padre o come fantasia di base di Don Chisciotte, evocativa dell’assenza, a determinare la soggettività e ad alimentarla” (da “Isegoria: Rivista di filosofia morale e politica”).
C’è spazio per l’ultima simbolica avventura di Don Chisciotte che dopo aver incontrato un burattinaio, Mastro Pietro (Marco Saccomandi), inspiegabilmente si lancia a spada sguainata dentro il teatro facendo a pezzi le sue marionette. E ora dovrà riparare al torto. Ma perchè questo furore? Cosa gli è preso al Cavaliere di spaccare tutto, prendendoci pure gusto?
E’ Hermanita a “coprire” Quijote e confessare che anche lei conosce momenti simili.
“Mi piglia il furor
Vedendo il Teattrino quotidiano
Vedendo recitar demostrativo.
E’ tutto così falso…
Così terribilmente falso…
Sul palco, fuori, nell’universo mondo…
‘Na brutta cosa, ‘na porcherìa…
Tutti che fan moine
Stringono mani
Fanno i contenti…
Sridacchiano
Mostrano i denti…”
E ancora con il suo straordinario incedere recitativo poderoso senza alcun ostacolo davanti insiste ancora:
“Me piglia il soffoco
Il Teattrino notturno e giornaliero
Che orrore riprodurlo per davvero…
reciticchio reciticchio
al modo istesso che nei caffè…
A che serve l’arte magica se non è magica?”
Un’accusa senza appello in nome e difesa della poesia. E’ questo forse il suggello più forte e definitivo di quest’opera errante: affascinante e dolorosa che si chiude con la morte del Cavaliere della triste figura.
Don Chisciotte muore e risorge. In quella che era l’abside della chiesa di Santa Chiara compare un magnifico cavallo alato dorato. Un bambino avanza nella sala e accende una fiammella.
Marcus stigmatizza. “Da certi labirinti non si esce. Piega dopo piega… spirali infinite, e miseteriosi mondi… e allora forse… quello che chiamiamo morte è solo un passaggio…” Hermanita: “Ardete stelle di notte…ghiaccio sotto di noi… Spezzati!”.
Un ultimo, imperioso, secco comando che tra magia e finzione sigilla un’opera fantastica e metafisica che parla degli uomini. Come furono, sono e saranno.
Scrive la filosofa Judith Butler che “non potremmo vivere davvero senza le vite altrui, senza ritrovarci nelle porosità altrui e senza lasciare che i corpi altrui si ritrovino nelle nostre. Questa è la condizione umana, un’apertura verso il mondo ben distante da ogni idea delimitata del sé e da ogni supposizione a riguardo. Viviamo in relazione con un mondo che ci sostiene, la Terra e i suoi habitat, inclusi quelli umani, che dipende però da una politica di impegno nei riguardi di un mondo in cui chiunque possa respirare senza paura del contagio, dell’inquinamento o del soffocamento da parte di un agente di polizia, in cui il proprio respiro si fonda col respiro del mondo, e in cui quello scambio di respiri, sincopato e libero, possa diventare tutto ciò che condividiamo – il comune, a tutti gli effetti”. (da “Che mondo è mai questo?”, edizioni Tempi Nuovi, 2023)
“Don Chisciotte ad ardere”
Ante I, II e III
Ideazione, drammaturgia e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
In scena, tutti bravissimi i seguenti attori: Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Fagio, Marco Saccomandi e le cittadine e i cittadini della Chiamata Pubblica
Musiche: Leda commissione di Ravenna Festival
A questi link i precedenti reportage: (2023):
https://www.glistatigenerali.com/cultura/teatro/ravenna-dentro-i-sogni-di-un-cavaliere-errante/
(2024):
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