Milo Rau in una lettera aperta alle donne e agli uomini di teatro invita alla resistenza

Teatro

Resistere, ora! Lettera ai miei amici e alle mie amiche nei teatri italiani

4 Ottobre 2025

Il regista teatrale svizzero e direttore del Wiener Festwochen Milo Rau, i cui spettacoli Five Easy Pieces e La Reprise hanno vinto il premio UBU come miglior spettacolo straniero, è stato recentemente ospite in Italia con Die Seherin alla Biennale Teatro di Venezia 2025. Ora arriva al Romaeuropa Festival con il suo più recente La Lettre. Nel testo che segue sceglie di indirizzare un’altra lettera ai suoi colleghi e alle sue colleghe italiani: un appello alla resistenza contro il genocidio a Gaza.

Vi è mai capitato? Ricevete un invito da una persona cara, scegliete un regalo, e assieme ci allegate una breve lettera. Una lettera piena di poesia, di umanità. Ma mentre dove vi hanno invitato, vi rendete conto che qualcosa non va. Che non funziona, che sembra sbagliato. È quello che mi capita di sentire oggi, mentre in Italia centinaia di migliaia di persone scendono in piazza per porre fine al genocidio a Gaza. Oggi, mentre mi preparo a portare in scena in Italia il mio ultimo spettacolo teatrale: La Lettre.

La Lettre parla dei rapporti tra i figli e i loro genitori, tra gli attori e il loro pubblico. Parla di Cechov, di Giovanna d’Arco e di alcune altre icone europee. Parla di amore e di dolore. E soprattutto parla del nostro bisogno di bellezza e d’essere comunità. Ma sapete una cosa? Oggi e qui, questo pezzo sembra stranamente fuori luogo. In questo momento, mentre ogni giorno cadono bombe su Gaza e la flotta che era in viaggio per fermare il genocidio è stata fermata a sua volta, la bellezza, il dolore, l’umorismo della mia lettera mi sembrano un grande silenzio, anzi una menzogna.

Forse conoscete questa poesia di Bertolt Brecht: «Che tempi sono questi, in cui parlare degli alberi è quasi un crimine, perché implica il silenzio su tanti misfatti». Sì, è così che mi sento: come qualcuno che tace dicendo molte parole. Così ho scritto rapidamente una seconda lettera, che potete leggere qui: una lettera politica, diretta. Naturalmente non c’è niente di più ridicolo che stringere i pugni sul palcoscenico, che proclamare slogan e utopie in un teatro. Brecht lo sapeva bene: peggio del realismo socialista c’è solo il realismo socialdemocratico.

Il palcoscenico non è un luogo di chiarezza morale, ma di contraddizioni. Il teatro che amo è un luogo cupo, tragico, ridicolo, vulnerabile, riflessivo. Ma oggi, miei cari amici, mie care amiche, oggi dobbiamo essere chiari. Dobbiamo dire quello che pensiamo. Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a ciò che accade fuori, nel mondo. E dobbiamo smettere di tacere al riguardo.

Cosa significa oggi non tacere come artisti, come artiste? Prima di tutto: non lasciatevi confondere da chi vi dice che dovete scegliere da che parte stare. Potrà sembrare un cliché, ma l’umanità ha solo una parte. Parlare di Gaza significa condannare i crimini dell’esercito israeliano così come quelli di Hamas, anche se in questa lotta tra Davide e Golia possono sembrare piccoli in termini puramente numerici. Non tacere significa stare dalla parte di tutti coloro che scendono in piazza contro il genocidio a Gaza: che siano cittadini palestinesi, israeliani o europei. Perché un crimine contro l’umanità non è diretto contro questo o quel popolo, ma contro tutti gli esseri umani, contro l’umanità stessa.

Quindi: parlare e non tacere significa chiamare le cose con il loro nome. La settimana scorsa avete tutti sentito alla televisione italiana l’aberrante dichiarazione di Eyal Mizrahi, quando gli è stato chiesto dei bambini uccisi a Gaza: «Definisci bambino». La stessa frase la sente chiunque usi il termine “genocidio”, utilizzato in modo inequivocabile dall’ONU per descrivere la guerra condotta da Israele a Gaza: «Definisci genocidio». Come se fossimo in un seminario accademico, come se ogni minuto che passa mentre leggete questa lettera non morissero persone a Gaza. A causa delle bombe, della fame, delle malattie.

Per dirla chiaramente: mai un genocidio è stato compiuto in modo così esplicito, visibile e indiscusso come in questo caso. E noi cosa abbiamo fatto? Abbiamo perso molti mesi, anzi anni, con giochi linguistici. Basta leggere uno solo degli innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di tutte le possibili associazioni di ricercatori, basta aprire un solo giornale. Il crimine è evidente e tutte le istituzioni che abbiamo creato dopo la seconda guerra mondiale proprio per impedire ciò che sta accadendo a Gaza gli hanno dato un nome inequivocabile: genocidio.

Ora, una cosa è scrivere questa parola e pronunciarla, chiaramente e distintamente. Un’altra è trarne le conseguenze. Le leggi non sono fatte per essere declamate come poesie. Le leggi sono fatte per essere messe in pratica. È come dice Gesù nel Nuovo Testamento: «Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e in verità». Le leggi, le parole, le istituzioni che non vengono applicate, ma continuano comunque ad esistere, diventano ornamento dell’ingiustizia e della disumanità. E alla fine, diventate impotenti, vengono abolite – e con esse la democrazia e la libertà.

Questa lettera è indirizzata a voi che dirigete teatri, che difendete le istituzioni della libertà: siate un esempio, siate liberi. Parlare e non tacere significa non avere paura. Non abbiate paura di perdere la vostra posizione, non abbiate paura di dire la verità con le parole giuste. Non possiamo più tacere per paura di diventare i perdenti della storia. Perché, come dice Brecht in un altro passo, poco prima che il fascismo trionfasse in Germania e lui fosse costretto all’esilio: «D’ora in poi e per molto tempo non ci saranno più vincitori, ma solo vinti».

Perché se non agiamo ora, se continuiamo a tacere, non saremo solo complici. Distruggeremo non solo la nostra umanità, ma anche la nostra libertà e, prima o poi, la pace. Se oggi restiamo in silenzio, domani dovremo combattere, proprio come hanno combattuto i nostri nonni e bisnonni. Se tradiamo i nostri valori in tempo di pace, se restiamo in silenzio qui e ora, senza essere minacciati, come potremo poi dimostrarci all’altezza nella palude della realtà?

E infine: non abbiamo il diritto di tacere. Germania e Austria, dove vivo e lavoro, Italia, dove questa lettera viene pubblicata: siamo le tre nazioni del fascismo classico. Abbiamo già taciuto una volta e abbiamo semplicemente continuato per la nostra strada. Abbiamo già una volta distolto lo sguardo perché temevamo per le nostre posizioni, perché non volevamo considerare le cose “solo da un punto di vista”. Perché l’arte ha un valore di per sé. Perché la situazione è contraddittoria.

Il 16 settembre l’ONU ha nuovamente accusato il governo israeliano di “genocidio”, ritenuto del tutto intenzionale. I membri della commissione dell’ONU citano discorsi, ordini, messaggi di Netanyahu e dei suoi ministri e generali, in cui questi invitano in modo diretto e inequivocabile alla completa distruzione della popolazione palestinese. Cosa stiamo aspettando? Quante centinaia di migliaia di persone devono ancora scendere in strada prima che noi artisti, curatori, direttori, organizzatori di festival ci assumiamo finalmente le nostre responsabilità? Prima di trasformare i nostri palcoscenici da luoghi di eloquente silenzio a luoghi di resistenza?

C’è un verso del poeta ebreo-americano Delmore Schwartz che amo molto: «Il tempo è la scuola in cui impariamo, il tempo è il fuoco in cui bruciamo». Bruciamo e impariamo allo stesso tempo, siamo artisti e attivisti allo stesso tempo. Smettiamo di tacere. Prendiamo una posizione chiara. Solo così potremo salvare la nostra arte, il teatro: questo luogo vulnerabile e riflessivo in cui cerchiamo insieme la bellezza e la comunità.

Milo Rau, Vienna, 4 ottobre 2025

(immagine di copertina di Montecruz Foto, creative commons

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.