Essere giovani non è un merito, dopo un anno di Renzi lo sappiamo tutti
Negli scorsi dodici non ho mai pensato che quella in atto in Italia fosse una rivoluzione generazionale. Ma ho percepito il rischio che quel criterio si presentasse come la legittimazione dell’agire politico.
Perché una generazione meritasse, non bastava dire che i mali della politica avevano costretto i migliori ad andare via. Accadeva già per quelli della mia generazione. Eravamo meno, numericamente, ma il principio non era diverso. Erano diversi i numeri. La quantità fa la differenza in politica, indubbiamente. Si impone come problema ineludibile, ma non produce di per sé progetto.
Del resto basterebbe seriamente guardarsi intorno e chiedersi: chi detta l’agenda delle cose da fare nell’economia, nelle professioni, di là dalla faccia di Matteo Renzi o della generazione under-40 che occupa in gran parte le poltrone di governo? è quella generazione a fare l’agenda? Non mi pare. Non me ne scandalizzo perché per farle le cose, per davvero, ci vanno autorevolezza e competenze.
Se c’è un presupposto che produce la legittimità a chiedere che si faccia un cambio quello consiste nella messa fuori gioco del principio di “rendita di posizione”. Essere giovani non è una rendita di posizione. Se lo diventa, anche in nome di ciò che si ritiene di aver ingiustamente e lungamente subìto, la vecchia politica segna un punto a suo favore. Forse in Italia non c’è stato un giovane “più giovane di Vittorio Foa negli ultime trenta anni della sua vita, ovvero dai suoi 70 anni in avanti. Non si presentava conme “saggio”, ma come “impertinente”. Sarebbe bene non dimenticarlo.
Non ci sono generazioni che in blocco esprimono un rinnovamento radicale. Ma un rinnovamento radicale lo esprimono le esperienze vissute in prima persona. Quello è un primo fattore dove si formano le competenze. Talvolta coincidono o si sovrappongono con l’area di una generazione. O con il tempo di una generazione.
Da quelle esperienze in cui ci si misura nel sociale, o nell’inserimento formativo dipende in quanti riescono a uscire, con quali differenziale rispetto a come ci sono entrati e soprattutto se e in che forma pesa il fattore “famiglia”. Vale ancora quel principio? Io penso di sì. Perché nessuno ne parla?
Ecco lì sta una differenza che fa la differenza. Questo aspetto non costituisce un tema nel dibattito pubblico. Non credo perché improvvisamente siano cambiate le regole della costituzione materiale del galateo sociale vigente nella società civile in Italia.
Dunque quanto il primo vero segnale che è finita la stagione dell’agitazione che è iniziato davvero un “new Deal” si tratta di affermare che cosa si fa, in quanto tempo lo si fa, con quale progetto operativo. Non c’è una generazione della concretezza e una della inconcretezza. C’è una classe politica che chiede anche sacrifici, rinunce, ma in nome di un progetto chiaro di rinnovamento. Se ciò che circola, invece, è il gergo giovanilista della rivolta, allora vuol dire che qualcosa non sta funzionando e il gergo della ideologia dela mobilitazione ha ripeso a correre e a batter la moneta “che paga”. E con ciò ci ritroviamo al punto di partenza col solito “italiano”, forse reinventato, ma non diverso, per dirla con Giulio Bollati.
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