Finanza
Lo scontro su Generali e la via per una “pax meloniana” a Trieste
Dopo decenni di arroccamento, Mediobanca è costretta a passare la mano ma chiede in contropartita Banca Generali: è uno scambio conveniente? Le mosse di Unicredit e Intesa, mentre il Governo potrebbe usare il golden power per influenzare gli assetti del capitalismo italiano
Con il lancio di un’offerta su Banca Generali (BG) da parte di Mediobanca, in cambio della sua quota di controllo (13,2%) nelle Assicurazioni Generali, il teatro delle operazioni per il riassetto del capitalismo finanziario italiano si arricchisce di un nuovo elemento, tanto più significativo, qualora l’operazione venisse portata a termine, per il vuoto di potere che lascerebbe alla testa gruppo assicurativo, un colosso della finanza italiana con oltre 850 miliardi di attivi in gestione.
Questo imprime un’accelerazione alle manovre in corso verso nuovi assetti, di cui il governo delle Generali è il principale nodo del contendere, e Intesa Sanpaolo e Unicredit due protagonisti destinati a giocare un ruolo di primo piano nella vicenda molto più dei due alfieri, Francesco Gaetano Caltagirone e la Delfin degli eredi Del Vecchio, che si sono fin qui intestati la battaglia contro i vecchi equilibri, simboleggiati dal controllo ultracinquantennale esercitato da Mediobanca sul Leone di Trieste.
Sullo sfondo si stagliano poi le altre operazioni delineate in questi ultimi sei mesi. Aveva cominciato, a inizio novembre, il Banco BPM, lanciando un’offerta sulla società di gestione Anima, di cui deteneva già il 22,38%. Unica operazione, questa, finora conclusa, oltre che la sola interamente regolata per cash. A stretto giro si faceva avanti Unicredit con un’offerta pubblica di scambio (titoli contro titoli) su Banco BPM, partita proprio in questi giorni ma il cui esito è appeso ai paletti posti dal Governo attraverso l’attivazione del golden power. E ancora si aggiungono l’offerta mista (titoli e cash) lanciata da Banca Ifis su Illimity Bank e l’Ops della Bper sulla Popolare di Sondrio, e naturalmente l’Ops di Mps su Mediobanca presentata come progetto di consolidamento bancario ma chiaramente orientata a mettere le mani sul pacchetto di controllo delle Generali.
La mossa dell’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel si configura allora come una ritirata e al tempo stesso un attacco. La decisione di fare un passo indietro dal Leone, al quale propone di cedere il suo pacchetto azionario in cambio di Banca Generali, è un passo obbligato: il bastione di Mediobanca non è più a prova di bomba né a Trieste, malgrado la recente vittoria nell’assemblea del 24 aprile, né in casa propria. L’Ops ostile lanciata da Mps, con l’appoggio di Caltagirone e e Delfin, e la benedizione del Governo Meloni, potrebbe spazzare via l’indipendenza della banca fondata da Enrico Cuccia. Sono le mutate condizioni di contesto che impongono la ritirata. Al tempo stesso con questa iniziativa – su cui pesano molte incognite – Nagel passa al contrattacco: da un lato, spera di scompaginare le carte degli avversari da un lato, dall’altro di salvare Mediobanca rifocalizzandola sul wealth management e trasformando il rapporto con le Generali partnership industriale, attraverso un accordo di bancassicurazione. Un’idea senz’altro valida come exit way per Piazzetta Cuccia, mentre è tutt’altro che scontata se la si guarda da Trieste: le Generali verrebbero a privarsi di una rete commerciale che sotto la guida dall’a.d. Gian Maria Mossa è ormai capace di portare 3 miliardi di nuova produzione vita lorda al gruppo triestino, utili in costante crescita e ormai non lontani dal mezzo miliardo di euro all’anno, e dalla quale arrivano un quarto degli investimenti assicurativi.
A completare il quadro manca infine una mossa esplicita di Intesa Sanpaolo e un chiarimento sui veri obiettivi di Unicredit. Quest’ultima ha acquistato una quota del 6,59%, come «puro investimento finanziario», mantenendo un atteggiamento equidistante dai contendenti fino alla vigilia della recente assemblea per il rinnovo dei vertici del Leone, quando il gruppo guidato da Andrea Orcel ha deciso di convogliare il suo voto sulla lista di amministratori presentata da Caltagirone, anche se ormai agli addetti ai lavori era chiaro agli che non ci sarebbero stati i numeri per scalzare quella presentata da Mediobanca, imperniata sulla riconferma dell’amministratore delegato Philippe Donnet. Proprio quest’ultimo non molto tempo fa aveva lasciato ventilare che proprio con Unicredit potrebbero esserci “collaborazioni sul fronte assicurativo nell’Est Europa, dove siamo già partner, ma il discorso potrebbe estendersi anche su altre aree”. Difficile dire cosa ci sia dietro questa decisione: per qualcuno un modo per ingraziarsi il governo nella speranza di ammorbidire le prescrizioni fissate dal Consiglio dei ministri riguardo all’Ops su Banco BPM.
Chi sul mercato ha la memoria lunga ricorda che circa un anno fa Unicredit accarezzò la prospettiva di lanciare un’offerta ostile su Mediobanca, d’intesa con Caltagirone e Delfin, con l’obiettivo di prenderne il posto nel controllo del Leone, ma poi Orcel si eclissò e non se ne fece più nulla. Oggi le strade dei tre sono tornate a incrociarsi, ma questo non implica che procedano insieme. Da un lato, il duo Caltagirone-Delfin non ha la forza finanziaria e la credibilità istituzionale per imporre un cambio di linea alle Generali con il sostegno dei grandi fondi di investimento presenti nel capitale delle Generali. Dall’altro, riferiscono fonti di mercato, le mosse di Orcel starebbero catalizzando curiosità e attenzioni anche dall’estero, specialmente presso quella parte della finanza francese che ha sempre nutrito un forte interesse per le Generali. Non è detto che tutto questo possa andare d’accordo con i piani del costruttore romano e del suo alleato Delfin. E men che meno con gli auspici del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e del governo Meloni, inclini a esercitare il golden power per bloccare assetti ritenuti contrari all’interesse strategico nazionale, in particolare quando di mezzo ci sono enormi masse di risparmio italiano, come è il caso dell’accordo, per ora non vincolante, tra Generali con il gruppo francese Natixis, fortemente voluto dall’a.d. Donnet.
Intesa Sanpaolo, che pure otto anni fa aveva tentato, senza riuscirci, di prendere il controllo della compagnia assicurativa di Trieste, è il convitato di pietra di questa battaglia. Finora si è accreditata come “spettatore” disinteressato, anche se questo – secondo la stampa – non ha impedito alla banca guidata dall’a.d. Carlo Messina di erogare a Caltagirone un prestito di 500 milioni di euro per permettergli di rafforzare le munizioni sui tre fronti in cui è impegnato (Mps, Mediobanca, Generali). Gli osservatori vicini alle vicende non escludono però che, qualora Governo glielo chiedesse, Messina possa giocare un ruolo da consulente o mediatore, disegnando un futuro indipendente e da public company per le Generali. Ma prospettare una sorta di “pax meloniana” per gli assetti di Generali non è facile. A parole tutti ne vogliono promuovere l’indipendenza strategica e lo sviluppo, in concreto tutti vorrebbero prendere il posto che è stato fin qui di Mediobanca.
Prevedere al momento dove possa cadere la palla, e quale possa essere il compromesso (o meglio i compromessi) tra tutti i protagonisti dello scontro, è arduo. Nessuno ha la forza di imporre soluzioni. Non certamente tra gli attori in campo, che fin qui sono ben lontani da quella condizione che il fondatore di Mediobanca, Enrico Cuccia, chiamava “articolo quinto”: «chi ha i soldi ha vinto». Di soldi veri per il mercato fin qui se ne sono visti pochi, le offerte messe sul tavolo sono tutte “carta contro carta”. Ma nemmeno il Governo può spingersi troppo in là: il golden power può indicare la direzione, ma la strada è il mercato che la fa, e le autorità europee sono sempre lì a vigilare.
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Nella foto di copertina, Palazzo Berlam a Trieste, sede dell’Archivio Generali e della Generali Group Academy (Credit: Gruppo Generali)
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