Coronavirus e smart working

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26 Maggio 2020

Coronavirus, per non dimenticare.

Questo virus malefico ci sta dando grandi lezioni di vita.

Ci sta dimostrando come si possa vivere in maniera diversa da quella che ritenevamo l’unica maniera possibile.

Non farò l’odioso errore che stanno facendo tutti i virologi, gli epidemiologici, i medici in genere che si sono laureati con 110 e lode all’università Covid 19

(che tiene i propri corsi sui social).

Per chi non lo avesse capito parlo, per esempio, di quelli che medici non sono ma medici si sentono, (visto come stanno andando le cose un chiarimento in questo senso mi è sembrato necessario… la mia era solo una frase ironica!).

Vorrei comunicare un’esperienza che ho vissuto in prima persona e mi piacerebbe che i lettori di buona volontà translassero le conclusioni alle quali sono arrivato nei settori di loro competenza.

Ho lavorato come informatico in un ente pubblico per tanti anni, circa 42, e ho vissuto i cambiamenti strutturali che si sono verificati all’interno dell’ente e quelli che invece non sono riusciti a verificarsi per resistenze di vario genere.

Penso di aver individuato i motivi principali di questa resistenza al cambiamento ma non sono uno psicologo, non sono un sociologo, per cui per non cadere nell’errore di accaparrarmi un paio di lauree in maniera gratuita, non mi esprimo.

Mi limito ai fatti: lo smart working, termine di attualità che ha sostituito il più desueto termine telelavoro, è stato gestito come un timido esperimento, vuoi dalla dirigenza dell’ente, vuoi dai sindacati, ognuno preoccupato di perdere parte del potere acquisito non potendo calcolare il peso di una incognita che non si sapeva esattamente dove avrebbe portato.

Oggi lo smart working è esploso e dico esploso perché, se l’anno scorso erano cinque le persone in telelavoro su un organico approssimativo di cento persone nella mia sede di appartenenza, oggi sono cinque le persone presenti giornalmente in sede.

Prima del Coronavirus erano state individuate, con enorme difficoltà, alcune attività che potevano essere portate avanti in telelavoro.

Oggi praticamente tutti fanno smart working e allora un paio di domande devono sorgere spontanee: queste persone stanno davvero lavorando? Il mio ente funziona come funzionava prima oppure no?

Le cose sono due o smart working è solo un termine (due termini in realtà) coniato per indicare la frase “meglio lasciare la gente a casa, che se dio ne guardi si infetta a lavoro, poi sono cavoli nostri” oppure funziona veramente.

Non lo so, o meglio non voglio indicare quale delle due risposte sia quella giusta, ai posteri l’ardua sentenza.

Proprio oggi sono stato contattato dal collega che si occupa del controllo della produttività e i dati relativi ai due mesi di crisi sono nettamente migliori, in termini di pratiche definite, dei mesi precedenti in cui si lavorava in maniera tradizionale.

Se alla fine dell’emergenza tutti torneranno al lavoro come prima, allora l’ente ha attivato lo smart working solo per non esporsi a rischi di cause per malattie contratte sul posto di lavoro e a livello produttivo si è rivelato un fallimento.

Eppure lo smart working, se effettuato in maniera corretta, (e lo dico nonostante non abbia la laurea in economia)  permette un risparmio incredibile specialmente nella pubblica amministrazione; per esempio io lavoravo in una sede di enormi dimensioni, che oltre agli impiegati possedeva archivi cartacei giganteschi, regolarmente allagati dalle alluvioni e bruciati in più riprese.

Oggi i cinque eroi rimasti al lavoro potrebbero essere ospitati in un appartamento di 100 metri quadri compresa una cucina, doppi servizi e, perché no, una camera da letto.

Per non parlare del consumo di elettricità e dei costi di manutenzione della struttura, oltre ovviamente al fatto che i colleghi che non facessero più smart working dovrebbero rimettersi in macchina, nel mio caso, o in metropolitana e in pullman nel caso di altre realtà più grandi.

Insomma quello che dico può essere compreso e verificato da ognuno di noi, senza competenze o qualifiche speciali.

Questa presa di coscienza, questo abbattimento di alcuni tabù è stato possibile grazie al Coronavirus..

E la cosa più stupefacente è che tutte le attività alle quali ognuno di noi può volgere l’occhio hanno sperimentato innovazioni che senza il Coronavirus non sarebbero state possibili per altri 10 anni come minimo.

Ripeto, senza voler invadere campi di competenza altrui, sarebbe interessante che si analizzasse, per esempio, l’impatto dell’emergenza sulla riorganizzazione della didattica, sull’apertura di nuovi canali per la comunicazione da e verso le pubbliche amministrazioni in generale e, perché no, sulla gestione della moneta elettronica.

Insomma sono solo esempi di una spinta data dall’emergenza a modernizzare il paese, a rendere più diretti ed efficienti i contatti fra l’amministrazione pubblica e il cittadino e a eliminare passaggi burocratici obsoleti e non funzionali.

A margine vorrei fare un’ultima considerazione anche questa derivata dalla mia esperienza lavorativa; cerchiamo di considerare il progresso tecnologico, l’utilizzo degli strumenti tecnologici, non come un diritto, ma come un dovere.

È troppo comodo dimenticarsi di avere un cellulare o un tablet quando si parla di utilizzarli per agevolare pagamenti e contatti con le pubbliche amministrazioni , quando si parla di usufruire di servizi che funzionano sicuramente meglio sul web , per esempio, ma ricordarsene in maniera rumorosa e fastidiosa quando si usano i social.

Non lasciamo che i pochi benefici derivati da una grande sciagura vadano persi, per incompetenza, ignoranza e malafede da parte di chi ci governa.

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CAT: Innovazione, Pubblico impiego

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