Nel Lazio chi si ammala è perduto
Uno degli esempi più macroscopici delle storture della pubblica amministrazione è rappresentato dal settore sanitario, che assorbe in media dal 75% all’86% del PIL regionale. La Sanità, un tempo basata sul sistema mutualistico, venne riformata con la Legge “Mariotti” 33/1968, ma nei decenni successivi l’impianto previsto alla fine degli anni ’60 dovette cedere alla politica di aziendalizzazione.
Che questo ultimo sistema di governance fosse irrazionale lo si è visto ancor più negli ultimi anni, gran parte dei quali sono stati scanditi da episodi di corruttela, spesso favoriti dal D.R.G. (Diagnosis Related Groups, ossia Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi). Quest’ultimo, introdotto nel 1995, identifica il meccanismo con cui le strutture ospedaliere vengono remunerate per le prestazioni erogate: ad ogni intervento sanitario corrisponde una cifra, tanto modificabile l’uno quanto l’altra perché completamente sganciati da parametri benchmark che fungessero da costi standard.
Nel tempo, ciò ha dato vita a veri e propri mostri sanitari, oggi identificabili nelle Aziende Ospedaliere Universitarie. Mostri perché sono riusciti a raggiungere un doppio perverso obiettivo: hanno centralizzato la sanità, creando megalopoli ospedaliere non sempre efficienti, ma l’hanno delocalizzata, privando il territorio di una rete diffusa di presidi sanitari, generando così infinite liste d’attesa, che spesso sono responsabili dei decessi.
La politica degli ultimi decenni, tutta protesa verso la “centralizzazione sanitaria”, ha avuto una sua logica, tutta economica ed economicistica: la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, incidendo sulla competenza regionale in materia sanitaria, ha fatto sì che il budget di spesa venisse concentrato nelle mani dell’assessorato regionale della sanità, favorendo la voracità politica e facendo esplodere il deficit. La fine della medicina territoriale, con il taglio dei piccoli ospedali senza la contestuale creazione di strutture di assistenza sanitaria capillare e di medicina diffusa, ha potenziato il fenomeno della fagocitosi. Sia la domanda sia l’offerta sanitaria si sono spostate verso i Centri Ospedalieri, ai quali il paziente, ormai divenuto cliente, è costretto a rivolgersi e verso i quali confluisce la quota più alta di budget.
Prendiamo l’esempio del Lazio in cui il rapporto medio abitanti/posti letto è del 3 per mille: se nella Capitale il rapporto si inscrive in una forbice che va dal 5,4 al 6 per mille, nelle province la penalizzazione è più alta. Rieti, Viterbo, Latina e soprattutto il Frusinate, rappresentano aree con il tasso più basso di posti letto per abitante, il 2 per mille rispetto al 3,5 per mille fissato dai parametri standard e al 6-7 per mille riscontrato nella zona centro-settentrionale della Capitale. Ad aggravare questo scenario c.d. standard sono le situazioni emergenziali nei giorni festivi, l’assenza di cure domiciliari (home care), l’assistenza ambulatoriale, le carenze della fase di riabilitazione. Tutte situazioni cui spesso i cittadini provvedono con risorse proprie ricorrendo alla medicina privata, alle cure fai da te etc.
Eppure lo Stato eroga per il Lazio ben 11 miliardi (quasi il 10% dell’intero budget) con 1.971€/ pro capite. Senza tener conto della pendolarizzazione sanitaria per lo spostamento di pazienti che, da altre regioni, specie del sud, confluiscono sulle Aziende Ospedaliere laziali. Alla base delle liste d’attesa sono proprio i grandi centri ospedalieri, le megalopoli sanitarie, che fagocitano la grande domanda sanitaria, senza contestualmente offrire un minimo di assistenza di primo livello nelle periferie.
Facile il ricorso alla frase: «Se devo fare una tomografia computerizzata)perché ho un sospetto di cancro, non posso aspettare sei-sette mesi». Ma la fagocitosi e l’accentramento dell’offerta sanitaria porta ad una sua dequalificazione evidente: concentrare le risorse e le professionalità di alto livello presenti nelle strutture italiane su diagnostica e terapia di primo livello, può significare deprivare l’offerta sanitaria di eccellenza che dovrebbe essere riservata alle grandi Aziende Ospedaliere.
La rete sanitaria sarebbe anche qualificata da 118 strutture per ricoveri e 171 poliambulatori pubblici attivi. Le strutture pubbliche sono 44, compresi 3 Aziende Ospedaliere universitarie, 74 le strutture private per 21.983 posti letto complessivi (dati del 2012), di cui il 55 per cento nella sanità pubblica. Ma il 53 per cento delle strutture ospedaliere presenta una dimensione non capillare per fornire un servizio efficiente come i 47 centri regionali dotati di reparti di riabilitazione post-operatoria, prevalentemente concentrati nella capitale e nella sua provincia. La soluzione sta in un’inversione di tendenza, che riporti la sanità al centro del territorio e la delocalizzi con strutture ad hoc per i primi interventi diagnostici e terapeutici, riservando ai centri di portata regionale il ricovero per la diagnostica e la terapia di medio livello.
Alle Aziende Ospedaliere Universitarie il compito di forgiare la nuova classe medica, dedicando gran parte delle risorse alla ricerca scientifica ed ai trattamenti elettivi e di eccellenza. Un esempio in miniatura od in nuce è costituito dall’Area Vasta che rende più omogenea e capillare l’offerta sanitaria. L’area vasta è il primo livello d’intervento che può portare ad un secondo livello, più specifico, con la formazione di Centri Interregionali (Area Ipervasta) di assoluta eccellenza come i Centri per i trapianti, Grandi Ustioni etc. Dunque, una politica atta a sviluppare la ricerca scientifica liberandola dal quotidiano dell’offerta sanitaria, come è documentato in un antico disegno di legge (Gambale et al.) presentato alla Camera oltre venti anni fa (XI Legislatura, n. 99/649/93) e lasciato che morisse nel dimenticatoio.
Non c’è dunque necessità di tagli lineari, ma di razionalizzazione della spesa affinché diventi congrua. Un cliente oggi spende per curarsi (prelievo diretto ed indiretto, ticket, medicina privata) e ben 10 milioni di italiani omettono le cure perché non possono più spendere.
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