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Milano

Quando i magistrati non ascoltano la violenza sulle donne

di Giustiziami
24 Novembre 2017

A volte sono proprio i magistrati o chi li affianca nelle loro inchieste  a non ascoltare le donne, a non aiutarle a ottenere giustizia quando raccontano di avere subito delle violenze. A spiegarlo è il giudice milanese Fabio Roia nel libro ‘appena uscito Crimini contro le donne’ in cui, oltre a presentare il panorama legislativo in materia, attinge alla sua esperienza di ogni giorno nelle aule di giustizia da quando, all’inizio degli anni Novanta, assieme a tre colleghe diede vita al primo e storico pool ‘famiglia’ specializzato in abusi tra le mura domestiche.

“La trama diventa drammatica – scrive Roia, ora a capo della sezione misure di prevenzione del Tribunale – quando il pregiudizio invade il mondo dell’intervento giudiziario dove si registrano ancora, fortunatamente a intermittenza ma con una tendenza al consolidamento, atteggiamenti culturali di fastidio, di resistenza, di negazionismo del problema che rivelano certamente dei pregiudizi”. Ecco allora che “operatori di polizia giudiziaria non formati sul piano culturale accolgono le donne che vogliono denunciare la violenza del compagno con indicazioni incoraggianti tipo signora, ci pensi bene, è il padre dei suoi figli, poi le portano via i bambini, lei non ha prove”. Il pregiudizio, spiega Roia, “si trasforma poi in errore tecnico nel processo”. “Così nelle aule di giustizia si sostiene che se ci sono periodi di tranquillità nella vita familiare il maltrattamento, neanche fosse una riduzione in schiavitù, non può sussistere; che se la donna testimone non ripete esattamente più volte sempre le stesse cose non può essere considerata attendibile; che la denuncia, soprattutto quando c’è una separazione in corso, può essere strumentale; che non è possibile che una parte lesa abbia sopportato anni di violenza senza parlarne con qualcuno o andare al pronto soccorso dicendo ai medici la vera genesi delle lesioni accertate”. E ancora, ci sono magistrati che nelle sentenze “scrivono frasi devastanti per la vittima che aspetta dalla decisione giudiziaria un riconoscimento istituzionale della sua violenza, che interpretano atteggiamenti e tratteggiano valutazioni di moralità, come scrivere che la ragazza ha una vita ‘non lineare’”. Roia striglia anche alcuni avvocati, come il difensore di un uomo che abusò di una donna “incosciente a causa di un’assunzione smodata di alcol”. Il legale chiese un’attenuazione della pena perché la vittima “essendo incosciente non aveva percepito l’invalidità del gesto”. Accadeva a Milano, nel 2014.

Manuela D’Alessandro

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