Impunito

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6 Ottobre 2017

Quella che segue è la versione in parte rivista di un post apparso sul mio blog nel 2011, quando in Italia scoppiava la polemica sulla richiesta di scarcerazione di Battisti, episodio tra i tanti di un tira e molla giudiziario italo-brasiliano che prosegue in questi giorni (e che non è l’argomento centrale dell’articolo).

Esule/rifugiato politico. La nostra lingua non è poi così ricca se dobbiamo mettere nella stessa categoria Battisti e i fratelli Rosselli. Ma d’altronde questo è proprio il momento delle grandi ammucchiate: Battisti, Craxi, Carlo Rosselli, tutti assieme (non) appassionatamente. Riconosco di nutrire un pregiudizio insuperabile nei confronti di Cesare Battisti. Qualcosa che non ha molto a che fare con la politica. Non mi piace la sua faccia, ecco. È una faccia da impunito. Inconfessabile lombrosismo a parte, ciò che mi colpisce del caso Battisti è il dibattito attorno al caso stesso e agli anni di di piombo in generale. È facile individuare i due fronti principali della polemica, che avranno ancora modo di scontrarsi nei prossimi mesi. Da una parte, una larga maggioranza trasversale schierata naturalmente per l’estradizione. Il sistema della liberaldemocrazia che il terrorismo ha sfidato, lo Stato monopolista della violenza con i suoi rappresentanti, assieme all’area della varia fascisteria. Gente che non abbiamo mai visto stracciarsi le vesti di fronte alla serena permanenza giapponese dello stragista Delfo Zorzi. Si è sentito e si sentirà ovviamente di tutto, dalla sacrosanta rabbia dei parenti delle vittime alle sparate della Destra (“boicottiamo il Brasile!”).

Dall’altra parte, i resti e le filiazioni di ciò che stava a sinistra del PCI, ossia i bersagli diretti o indiretti della legislazione d’emergenza di quegli anni ormai lontani. La maggior parte di loro cova un forte risentimento verso la magistratura, la quale fu almeno in parte – ai tempi del cosiddetto “teorema Calogero” – lo strumento di un regolamento di conti tutto interno alla Sinistra. Conti non ancora del tutto regolati, come dimostrano certe odierne contrapposizioni. Nel ’77, il Partito Comunista più grande dell’Europa Occidentale, a pochi passi dalla stanza dei bottoni, si scontrò con il variegato arcipelago dei movimenti, da cui era germogliata anche la componente della lotta armata, altrettanto varia nelle sue ramificazioni. Nell’infinita proliferazione di gruppi, gruppetti, partitini armati, ognuno con la sua brava sigla, occupavano un posticino rispettabile anche i Proletari Armati per il Comunismo di Arrigo Cavallina, un signore che, dopo dodici anni di carcere, è oggi attivo nel volontariato cattolico a Verona. Il corredo ideologico dei PAC era uno dei tanti sottoprodotti della sconfitta operaia: la pantomima di una rivoluzione impossibile finiva allora di consumarsi nel disperato tentativo di trasformarla in rivolta permanente. Una parte dei teorici dello scontro armato, di fronte alle micce bagnate del proletariato tradizionale, pensò che i combattenti adatti a quel frangente fossero da cercare nelle nuove e vecchie marginalità, nella delinquenza comune, nella teppa, tra quelli che lo Stato aveva già represso.

Insomma, più di qualcuno (oltre ai PAC vanno ricordati i NAP) andava a raccattare i militanti in galera e Cesare Battisti era appunto uno di quei nuovi militanti che venivano dalla strada passando per la prigione. Un ragazzaccio dall’adolescenza difficile, si direbbe. Qualche rapina, una denuncia per atti osceni, un primo soggiorno in carcere. Lì, Cesare incontra appunto Arrigo Cavallina, che lo rende edotto sul suo ruolo di rappresentante in armi del proletariato. Uscito di galera, inizia a girare con la pistola in tasca e l’invisibile divisa di rivoluzionario addosso. Quando poi l’esperienza dei PAC si conclude con gli arresti e i processi, ai quali non sfuggono i suoi compagni, riesce a darsi alla fuga. La dottrina Mitterand viene in suo soccorso. Per quindici anni, Battisti gode delle garanzie dello stato Francese. Diventa uno scrittore di successo, scrive romanzi gialli, frequenta e si fa amici gli intellò che contano e si rifà una vita. Su Cesare Battisti il giallista non posso dire nulla: non ho letto i suoi libri. Sembra abbiano venduto bene in Francia, e del resto tra i suoi fan si contano alcuni dei nomi più noti della gauche caviar parigina. Paese dall’ampio abbraccio, la Francia. Ha accolto tanto i terroristi in fuga dalle condanne quanto i rampolli degli industriali spediti al sicuro al di là delle Alpi. Tra i primi, Cesare Battisti, tra i secondi, Carla Bruni-Tedeschi, riparata lì con la famiglia. Nei suoi caffè e nelle sue università, Parigi accoglieva tutti, difensori e demolitori dello status quo.

Tra i tanti interventi all’epoca della concessa estradizione di Battisti dalla Francia nel 2004, merita di essere segnalato quello di Daniel Pennac. Delle storie di Benjamin Malaussene, di Mo il Mossi e degli altri abitanti di Belleville non ricordo più molto, se non che mi sono stati simpatici dalle prime pagine. Ricordo anche Come un romanzo, che contiene il decalogo degli “imprescindibili diritti del lettore”, come quello di poter abbandonare un libro senza alcun senso di colpa. Nella sua lettera a Battisti dalle pagine di «Le Monde», Pennac si esprimeva così:

Il 10 luglio 1880, nove anni dopo la Comune di Parigi (insurrezione che fece più di trentamila morti!), i condannati furono graziati e amnistiati. È il 2004, i fatti che le sono attribuiti risalgono a quasi trent’anni fa ed eccola di nuovo gettato in galera, tradito dal paese che le aveva garantito rifugio e consegnato a quello che le rifiuta il perdono.

Mentre riflettevo sull’incongruo parallelo con la Comune di Parigi, mi sono ricordato di quel diritto a non finire un libro. La ricaduta etica di quel diritto mi è apparsa subito chiara, se riferita al vissuto di Battisti, uno che a un certo punto ha buttato via il libro che aveva aperto, senza finire di leggerlo, cioè senza affrontare le estreme conseguenze delle sue scelte. Questo mentre tanti altri protagonisti della lotta armata sono arrivati al fondo della loro esperienza, pagando i loro conti con la giustizia e in diversi casi riacquistando una voce nel dibattito pubblico (tanto per fare due nomi, Renato Curcio ha fondato una casa editrice e si occupa di ricerca sociale e Sergio D’Elia è stato parlamentare coi Radicali). Certo, in questo caso si parla dell’esecuzione materiale di omicidi e dei conseguenti ergastoli, mica di roba condonabile come una verandina abusiva o prescritta come una banda armata senza morti sul groppone.

Ripercorrere la vicenda giudiziaria di Battisti non è semplicissimo. Anche i più accalorati difensori italiani – Valerio Evangelisti, Wu Ming e i soci di Carmilla – si sono spesso affidati più alla retorica moralistica e identitaria, alle reprimende sui pentiti e ai confronti tra le nefandezze del Potere e l’ingenuo proletario Battisti che non alle “carte” processuali. Restando ai fatti, Battisti viene condannato in contumacia all’ergastolo per una serie di omicidi e rapine compiuti nel corso del ’78 e del ’79. Chi scrive allora era un poppante che abitava le regioni in cui i PAC mettevano in pratica il loro delirante concetto di giustizia proletaria. Il Nordest, giusto un attimo prima di diventare Il Ricco Nordest, ben pasciuto e addormentato e mosso solo da qualche sussulto autonomista, era allora terreno di battaglia per il terrorismo di ogni colore. In quei due anni, stando alle sentenze, Battisti avrebbe sparato a due poliziotti, Andrea Campagna e Antonio Santoro, avrebbe fatto il palo durante l’omicidio di Lino Sabbadin, macellaio veneziano, e avrebbe deciso assieme ai suoi compagni l’uccisione di Pierluigi Torregiani, un gioielliere milanese, senza parteciparvi materialmente. Responsabilità diretta in due casi, corresponsabilità materiale e «co-ideazione» negli altri due. La sua linea di difesa si basa sul fatto che la sua colpevolezza sia quasi unicamente legata alle dichiarazioni di alcuni militanti dissociati e a quelle estorte con la tortura (per la precisione con il waterboarding). Battisti si proclama innocente su tutta la linea. L’hanno incastrato gli infami prezzolati dai giudici comunisti come Spataro, dice Battisti (che per un attimo ricorda quell’altro, l’amico dell’esule Bettino, n’est-ce pas?), e poi c’era la guerra civile e la repressione poliziesca al di fuori di ogni regola democratica, ecc.

È vero, ciò che successe in quegli anni nel Paese non è qualcosa di cui in democrazia si dovrebbe andar fieri. Dalla legge Reale del ’75 a quella Cossiga del ’79, fino ai primi anni Ottanta, le sospensioni dei diritti costituzionali furono maledettamente frequenti. Anche di quell’assaggio di stato di polizia dobbiamo ringraziare in parte i ragazzini con le mitragliette – e soprattutto i loro maestri. Qualunque sia la verità, proprio in virtù della necessità – contraria al decalogo di Pennac – di ‘finire il libro’, e chiuderlo una volta per tutte, io credo che Battisti debba confrontarsi con la giustizia italiana, con tutto ciò che questo comporta per la sua persona. E chi lo difende dovrebbe difenderlo qui, anziché pagargli il biglietto aereo per qualche puerto escondido. O almeno riflettere sulle conseguenze possibili del proprio atteggiamento: chi crede che non sia possibile far valere la propria innocenza in un tribunale italiano avrebbe tutti i motivi per prendere le armi e sollevarsi contro lo Stato. (O, in alternativa, diventare Presidente del Consiglio e cambiare la Legge a proprio uso e consumo. Sovversione o eversione. Una delle due eventualità si è già presentata). Si suppone che chi scelse la via delle armi contro lo Stato fosse ben consapevole dei rischi a cui si esponeva. Il rischio di morire ammazzati, innanzitutto. E il rischio di perdere la libertà. Molti hanno accettato con coraggio e dignità le conseguenze delle proprie scelte. Anche le conseguenze ingiuste, o ritenute tali. Altri no. Insomma, salta agli occhi la differenza umana tra un Sofri e un Battisti.

“Che fai, il moralista pure tu?”. Sì, e orgogliosamente, ma non solo. In realtà mi lasciano sempre perplesso i riferimenti al pentimento, anche nella sua definizione più tecnico-giuridica di «dissociazione». Vorrei una giustizia che recuperi e non punisca soltanto. Ma il recupero passa per la riconciliazione e l’accettare di venir giudicati dal proprio vecchio nemico è la condizione necessaria per ogni riconciliazione. «Ma sono passati così tanti anni!». Certo, per chi non crede all’utilità dell’istituzione carceraria, l’autorecupero – chiamiamolo così – di Battisti, che ha smesso di fare il pistolero, è diventato uno scrittore di successo, ha una bella famiglia e tanti amici famosi e intelligenti, potrebbe essere più che sufficiente. Nemmeno io credo che il carcere serva a qualcosa. Non vedo però che cosa dovrebbe distinguere Battisti dalle decine di migliaia di carcerati per reati «comuni», se colpevole, o dal numero imprecisato di vittime di errori giudiziari, se innocente. Dovrebbe forse contare l’appartenenza alla sua setta di invasati, autonominatisi rappresentanti del Popolo e giustizieri in suo nome? O quella alla categoria degli scrittori? Per quanto mi riguarda, ciò che conta è la responsabilità personale dell’individuo. Le condanne o le assoluzioni collettive fanno parte di culture totalitarie che mi schifano alquanto.

Ma sorvoliamo pure sulle scelte personali del fuggiasco. In fondo, nessuna bestia, a quattro o a due zampe, si fa mettere volentieri in gabbia. Se ci privano della libertà, tentiamo di fuggire. Non è quindi la fuga in sé a essere degna di riflessione. Magari in un romanzo, chissà. Le domande che rimangono aperte sono quelle relative alla straordinaria mobilitazione dell’intellighenzia di sinistra in difesa di Battisti. Ci si domanda quante e quali siano le motivazioni di quegli intellettuali. È semplicemente garantismo da «sinceri democratici», rivolto alle vicende di una democrazia debole e malata come quella italiana? È fascinazione romantica gauchiste per la figura del guerrigliero? È desiderio di concretizzare il proprio impegno attraverso la protezione di un (sedicente) antifascista? (I Rosselli ammazzati, Battisti libero e autore di gialli: ecco la Storia ripetersi come farsa). È una sorta di senso di colpa o di imbarazzante debito di riconoscenza verso chi a suo tempo prese le armi, immolandosi al posto loro? È un atteggiamento frutto della complicata e costante attività proiettiva dell’intellettuale, che di volta in volta individua un capro/pollo da sacrificare? In questo caso si tratta di uno “sbandato, un teppistello”, come lo definiscono i neoepici di Carmilla. Trent’anni fa poteva servire a mettere in pratica la rivolta permanente, oggi a rivendicare la propria esistenza – a sé stessi in primo luogo. Secondo il giornalista carioca Mino Carta, nella vicenda giudiziaria di Battisti in Brasile è stata determinante «una colossale ignoranza della storia italiana». Forse è ancora un problema di proiezione quello di chi, come Lula, ha lottato contro la Junta militar e oggi confonde, per citare Miguel Gotor, «la sua biografia di militante socialista e di perseguitato da un regime dittatoriale con quella di un delinquente dalla penna affilata».

Com’è piena di paradossi, la realtà: i PAC assassinarono il poliziotto Campagna perché questi avrebbe partecipato ai pestaggi subiti da alcuni militanti, e Battisti ha vissuto protetto in un paese nelle cui celle si può fare la fine di Daniele Franceschi, un caso molto simile a quello di Stefano Cucchi che tuttavia non sembra aver provocato grandi appelli da parte dei nostri intellettuali. Altro paradosso: i PAC assassinarono Torreggiani perché si era fatto giustizia da sé, e Battisti gode tuttora dello status di rifugiato politico in un paese in cui gli squadroni della morte agiscono più o meno indisturbati nelle favelas per fare ‘pulizia’. Com’è complicata, la realtà.

TAG: anni di piombo, Cesare Battisti, intellettuali, terrorismo
CAT: Partiti e politici, Terrorismo

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