Partiti e politici
Renzi, il giorno dell’ira. Pensa davvero di governare con questo sentimento?
FIRENZE – Tra sciacquare i panni in Arno e il giorno dell’ira, Matteo Renzi sceglie la via più collerica, alludendo senza mai fare un nome, di un giornale e neppure di un Saviano, e quando c’è semmai da evocare la mozione dei sentimenti – momento estremo di tensione commotiva leopoldina – sceglie di giocare in casa con il suo babbo “che passerà da indagato il suo secondo Natale, nonostante la Procura abbia già chiesto due volte di archiviare”. L’espediente è sentito tanto quanto retorico, giacchè, subito dopo oppone la sua sofferenza di figlio e presidente del Consiglio alla “massima fiducia nella magistratura” e come potrebbe essere diversamente dal momento che in uno straordinario rovesciamento di campo per un paio di minuti evoca persino l’Inseguito della Storia e lo chiama scherzosamente Lui, come noi feticisti di B. amiamo evocarlo, e chiamarlo Lui di fronte ai leopoldini ha il sapore del distacco eterno da quel giorno del Nazareno. Il tema è quello caro a Renzi della responsabilità, del prendersi le colpe se le cose non vanno per il verso giusto, del non scaricare sugli altri come fece l’Italietta del passato e dunque anche quella berlusconiana. «E dicevano – attacca – che se Lui vinceva era per colpa delle televisioni, poi dicevano che se Lui perdeva era colpa dei magistrati, insomma prima era sempre colpa di qualcun altro!»
Piantato davanti a un palchetto, incravattato di rosso sul solito blu – ma durerà appena due passaggi e poi la cravatta volerà via in uno spogliarello politico che di fronte alle signore gli permette l’invecchiatissima battuta “ma non vi affezionate” – il capo leopoldino archivia per questa edizione la gentilezza, che pure come sentimento non gli è ignoto, per inaugurare un’altra stagione, la stagione delle allusioni, la stagione dei messaggi indistinti a voce altissima perchè tutte le suocere intendano, la stagione di una grande irrequietezza che traspare sin dai primi concetti, quando per dire una (per lui) normalità come: “Abbiamo rovesciato il sistema più gerontocratico d’Europa”, deve persino gridarla battendo i pugni e allora capisci subito che in quell’ora e dieci che poi sarà ti dovrai armare anche di una certa pazienza.
Si può tranquillamente dire che fosse un Renzi molto irato e se dovessimo valutare il suo percorso pubblico sino a qui, per come lo abbiamo conosciuto, dovremo pensare a un uomo anche un poco fuori di sè, che ha cambiato in corsa la ragione sociale della Leopolda 6 che da «Terra degli Uomini» si è trasformata, nel suo ragionamento, nella «Terra delle insinuazioni». Questa la parola chiave: insinuazione. Ciò che nei due giorni precedenti ha rosicchiato inesorabilmente porzioni di vitalità alla Leopolda originaria, travolgendola e stravolgendola nella sua grande identità. È questo che Matteo Renzi non perdona a Saviano, ma poi Saviano è uno, è questo semmai che non perdona a tutti i giornali che quel “maledetto” Saviano lo hanno seguito e inseguito senza magari porsi qualche dubbio. “Noi abbiamo dalla nostra parte la verità e il tempo”, urla in faccia alla platea che applaude ed è come se sostituisse le nostre facce alle facce leopoldine tanta è la tensione, “verità e tempo stanno dalla nostra parte, non ci avrete!” È chiaro, Maria Elena è vendicata.
In quel “non ci avrete” c’è già tutto. Sente forse un accerchiamento, avverte minimi scricchiolii alla sua poltrona saldamente inchiavardata a terra, forse nota minimi spostamenti editoriali, il Corriere (forza, su, coraggio) che definisce quel concorso lì immondo «Vota il titolo peggiore» (a proposito, vince Libero con “Lezioni porno all’asilo”) “Una scelta discutibile”, non solo, un renziano come Antonio Polito che parla di tempesta perfetta a proposito di banche, da cui il titolo «Una vicenda che adesso va chiarita», il vecchio direttore De Bortoli mai amatore folle di Renzi che twitta addirittura: «I titolo dei giornali li faccia direttamente lui, così facciamo prima».
Ma questi sono segnali, diciamo così, più generalisti, poi uno si tuffa in letture più ardite e dotte sulla materia e scopre che Luigi Zingales, che insegna a Chicago ma è riveritissimo in Italia, pesta duro dalle colonne del Sole 24 Ore. «È necessaria un’azione risarcitoria aggressiva nei confronti di tutti i possibili controllori: dagli amministratori ai sindaci, da Consob a Bankitalia». Visione americana quella del prof Zingales, ma quando parla di amministratori includerebbe o no il vice presidente Boschi? Naturalmente, la strategia del governo è sotto un faro di attenzione. Zingales parla di strada sbagliata e per farlo richiama lo scandalo Madoff: «Dopo la colossale truffa il governo americano non ha indenizzato le vittime, ma ha nominato un avvocato famoso per la sua aggressività, Irving Picard, per recuperare la maggiore quantità di denaro possibile da chi avrebbe dovuto controllare e non l’aveva fatto. Picard ha fatto causa a tutti i responsabili, senza guardare in faccia nessuno. Il risultato è che le vittime hanno recuperato oggi il 60% delle perdite». E qui l’attacco a Renzi/Padoan: «Lo stesso dovrebbe fare il governo italiano, invece di usare il fondo di garanzia interbancario. Affinchè questa azione abbia qualche possibilità di successo, però, il governo nn deve nominare un avvocato amico degli amici. Ci vuole qualcuno che venga da fuori e non gurdi in faccia nessuno».
Viene immediato il ricordo di un uomo straordinario come Ambrosoli. L’Italia è ancora in grado di offrire persone così al Paese?
Ci si chiedeva ieri se questa tre-giorni leopoldina sarebbe scorsa senza una parola sulle banche. Segnali che Renzi ci tornasse nel suo discorso di chiusura ne erano arrivati, ma ciò che poi è accaduto non era prevedibile. Renzi ne ha parlato sì, ma alternando due parti nel dramma e alla fine mischiando tutto. Mischiando l’uomo ferito nei suoi affetti, mischiando il suo affetto per Maria Elena Boschi ferita, all’uomo presidente del Consiglio che doveva quanche spiegazione al Paese, anche qualche rassicurazione. Tutto, sempre, sotto quella parola maledetta: insinuazione. “Noi non abbiamo scheletri nell’armadio – scandiva alto e forte – la verità è piu forte delle chiacchiere. Solidarietà per chi sfoga le proprie frustazioni nei retroscena”. E subito dopo il passaggio drammatico, evidentemente sofferto e studiato, la vita delle persone in gioco, il dolore altrui: “Chi pensa di strumentalizzare la vita delle persone deve fare pace con se stesso, ma chi pensa di strumentalizzare la morte delle persone mi fa schifo!”. Poi, dopo aver sottolineato “nessun favoritismo del governo, chi lo dice infanga, state infangando persone perbene”, il rientro nei panni istituzionali del premier: “Il nostro sistema bancario è più forte di quello tedesco, credetemi, lo dico da dentro. Lo so che mi guardate con tanto d’occhi, a parti invertite lo farei anch’io”.
Alla fine, il vero momento del distacco, consapevole che la Leopolda che fu non ci sarà più. Formula sin troppo compiuta per poterne abusare ancora, tanto vale allora dividerla in 1000 leopoldine: “Dovrete essere voi – guarda orgoglioso la platea – a scendere nelle strade per raccontare chi siamo, lo chiedo a voi, chiedo il vostro impegno per il referendum costituzionale, dovrete convincere gli scettici, schiodarli dall’indifferenza, sono sicuro che ce la farete”. Scettico Matteo? Lui proprio no: “Non ho dubbi che se andiamo alle elezioni noi vinciamo al primo turno, andiamo sopra persino il quaranta delle Europee”.
Resta una strana sensazione di tristezza alla fine di questi tre giorni, come se fossero mutati gli equilibri tra il Potere e chi dovrebbe controllare (anche la stampa magari quando capita). Come se il presidente del Consiglio avesse alzato l’asticella della diffidenza, pensando che ciò che lui stesso denuncia – il sospetto appunto, la pratica dell’insinuazione – possa diventare a parti invertite l’unica forma di relazione tra questi due mondi. Se fosse così, sarebbe preoccupante, al punto da elevargli una preghiera davvero sincera: se Lei davvero crede, Presidente, che la stampa sia questo, non si adegui a noi, voli più alto di questo nostro malinconico e modestissimo livello. In ogni caso il giorno dell’Ira di Matteo Renzi non servirà a lui, non servirà a noi, ma soprattutto farà male a tutti gli italiani.
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