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Benessere

I Giovani non sanno? una volta, forse

di Simone Zambelli
26 Settembre 2016

“I giovani non sanno la fatica che ho fatto”. “I giovani non hanno idea”. Quante volte abbiamo sentito queste espressioni? Centinaia di volte. In famiglia, nei libri, in tv, da opinionisti più o meno autorevoli. A volte mi verrebbe voglia di dire, “i cinquantenni non sanno la fatica che facciamo noi”. Non hanno idea. Proprio così: perchè il mondo che viene consegnato alla mia generazione è infinitamente peggiore di quello che la generazione dei miei nonni ha consegnato ai miei genitori. Sono certo di fare parte della prima generazione della storia dell’occidente per cui il futuro consegnato ai figli è infinitamente peggiore rispetto a quello dei padri e dei nonni. Non lo dico per vittimismo, tutt’altro. Lo dico per raggiunta e serena consapevolezza. Lo dico da trentenne mediamente soddisfatto, ma conscio di far parte di una generazione costretta a farsi “il culo” per conquistare un centimetro di stabilità. Una generazione che deve conquistare tutto, compresa la normalità, con estrema fatica e sudore. Una generazione che partecipa ad un’insensata lotta alla sopravvivenza.

Alcuni esempi non guastano. Il mondo formativo si è fortemente (ed a mio avviso esageratamente) specializzato. Ogni professione ha un iter formativo esasperante, uno psicoterapeuta studia in media 11 anni post diploma, con la certezza di avere nell’immediato un lavoro precario e mal pagato, mentre le generazioni precedenti avevano un percorso di 4anni post diploma con la certezza, se andava male, di un posto nel robustissimo welfare pubblico. Stessa cosa per l’insieme delle professioni socio sanitarie e riguardanti la trasmissione dei saperi. I maestri elementari entravano stabilmente nel mondo del lavoro a 20/21 anni; oggi, se tutto va bene, ma deve andare veramente bene, entrano stabilmente 10 anni dopo. Se sei laureato hai lo stesso stipendio che un tempo aveva un diplomato con la licenza media in entrata nel mondo del lavoro. Dati istat. Purtroppo. Nel campo dell’abitare fino a non molti anni fa esisteva l’equocanone, le cooperative edificatrici proponevano formule come la proprietà indivisa, i comuni disponevano di un enorme patrimonio di edilizia residenziale pubblica; oggi l’unica speranza è un regalo generoso da parte dei genitori o quantomeno una garanzia sul mutuo. Potremmo proseguire sui tempi di vita: gli orari di lavoro delle generazioni alle nostre spalle erano molto più ridotti, le prestazioni richieste inferiori. Gli ambienti di lavoro erano estremamente più sindacalizzati e le tutele erano oggettivamente maggiori. La nostra generazione è stata la prima ad avere le agenzie interinali: siamo stati i pionieri delle forme di lavoro atipico. Abbiamo provato tutto: i contratti a progetto, le collaborazioni coordinate e continuative, siamo stati costretti ad aprire le partite IVA fino ad arrivare al pagamento per vocher. Oggi possiamo ambire ad un contratto di lavoro “stabile”, senza articolo 18, dove le ferie e le malattie pagate ci sembrano un lusso incredibile. Quasi un privilegio per cui dire grazie anzi no. Per cui chiedere quasi scusa. Senza poi parlare di quell’amplissimo sistema di welfare e di tutele presenti nelle grandi aziende e nei settore pubblico. Sostegno alla maternità, vacanze, luoghi culturali e sportivi. Non sono per nulla nostalgico. Mi ripeto. Sono sereno e felice della mia vita, ma credo che la nostra generazione debba mostrare questi fatti e cominciare a rivendicare diritti rinunciando alla prospettiva che ci offrono oggi: una lotta insensata alla sopravvivenza. E credo che si potrebbe cominciare a dire “I vecchi non sanno la fatica che tocca fare a noi”.

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