
Relazioni
Contro la dittatura della prestazione emotiva
Quando la gentilezza diventa obbligo, anche la cura si ammala
Ci sono lavori che chiedono la pazienza. Altri l’efficienza. Altri ancora la presenza. Ma ce n’è uno, sempre più diffuso, che non è scritto in nessuna mansione, in nessun contratto. Ed è il lavoro emotivo.
Essere gentili. Comprensivi. Accoglienti. Sempre. Anche quando tutto brucia. Anche quando non se ne ha più.
È la nuova forma di prestazione: essere autentici a orari stabiliti, empatici su comando, disponibili anche quando si è vuoti. Non è una richiesta esplicita, ma è ovunque. Nella scuola, nell’assistenza, nei call center, nel volontariato, nelle case.
Non è il cuore che si offre. È il cuore che si chiede, si misura, si valuta. Con feedback, questionari, parole chiave: emozione, cura, connessione. Ma se si dice che non ce la si fa più, si viene giudicati “non adatti”, “non pronti”.
Questa non è libertà. È un nuovo galateo della stanchezza. E chi non lo regge, si vergogna.
Si vergogna di essere spento. Di non avere più risposte morbide. Di non reggere la dolcezza quando tutto dentro chiede solo silenzio.
Non è più solo questione di fare bene il proprio lavoro. Ora bisogna anche sentirlo bene.
Non basta rispondere: bisogna sorridere. Non basta ascoltare: bisogna partecipare emotivamente. E se non lo si fa, qualcosa si incrina.
Si comincia a sentire di non essere “in linea”. Come se il proprio disincanto fosse una colpa da nascondere.
Così nasce un nuovo tipo di solitudine. Non quella di chi è isolato, ma quella di chi è costretto a fingere vicinanza.
Nel nome della cura si impone la forma. E la forma diventa un obbligo emotivo, una prigione cortese.
È il paradosso di chi lavora nell’aiuto e finisce per essere inghiottito da ciò che dovrebbe dare.
Come se la fragilità fosse ammessa solo quando appare bella.
Come se la stanchezza, per essere accettata, dovesse essere narrabile.
Ma non tutte le fatiche si possono raccontare. Alcune sono opache, inarticolabili, ostinate.
Eppure sono proprio quelle che ci fanno umani. Quelle che, se riconosciute, potrebbero aprire un altro modo di stare.
E se la vera violenza fosse chiedere dolcezza a chi è già a terra?
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