Società
Il linguaggio performativo come ultimo baluardo della comunicazione
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“La parola ha in sé, nella sua radice, un potere vastissimo: essa crea e definisce la nostra rappresentazione del mondo e dunque il nostro mondo, così come siamo capaci di conoscerlo”
Ciò che ci rende schiavi, subalterni, incapaci di essere liberi è l’incapacità di capire, di interpretare il mondo che ci accade intorno, la sua evoluzione, decodificare la complessità, potersi esprimere usando le parole giuste, adeguandole al contesto, sceglierle. Spesso chi usa il linguaggio per professione sembra che scientemente si esprima in un modo astruso per non essere capito, fa ricorso a tecnicismi, al linguaggio settoriale, insomma, a parole difficili che creano un vuoto di comunicazione. La comunicazione è un’azione comune dove il parlante e l’ascoltatore, incontrandosi in un punto familiare ad entrambi, possono agire uno sull’altro, senza che ci sia prevaricazione, che spesso deriva dall’incomprensione legata all’ignoranza di uno dei due parlanti.
Quando si comunica bisognerebbe aver chiaro il motivo per cui si comunica, le parole hanno il potere di avvicinare, intrattenere, offendere, sedurre, scioccare, spettegolare, creare fratture. Si crea un baratro quando si cerca di stupire, ammaliare con un linguaggio forbito per fare scena, per essere riconosciuto come persona colta.
Siamo lontani dai tempi in cui la televisione mirava a fornire istruzione agli Italiani. ll regolare servizio di televisione iniziato nel 1954 quando la Rai raggiungeva il 58% degli Italiani, ha inizialmente contribuito all’alfabetizzazione di un popolo che a stento riusciva a esprimersi in modo semplice e rudimentale, spesso usando il dialetto.
Il maestro Manzi fu una figura emblematica del nuovo programma per l’istruzione degli adulti analfabeti; viene scelto e gli viene affidata la conduzione di “Non é mai troppo tardi”, innovativo nell’impianto organizzativo, nello stile di conduzione, e nel linguaggio didattico. Indicato dall’Unesco come uno dei migliori programmi televisivi per la lotta contro l’analfabetismo, Manzi sintetizza il suo intento nella celebre frase “Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere”.
Oggi, nell’epoca della complessità, in cui c’è un elevato livello di istruzione grazie anche all’accesso di larghe fasce di popolazione all’istruzione obbligatoria, e a una democratizzazione di un’informazione che ci viene fornita attraverso la rete, si riscontra un nuovo analfabetismo che esclude le fasce più deboli, quelle cioè, provenienti da un background culturale che le esclude dalla decodifica di linguaggi sempre più specialistici, tecnici, ricercati.
Ho usato di getto il termine “background”, chiedendomi se fosse il caso di sostituirlo con il termine “sostrato”. Mi sono resa conto che il termine inglese è divenuto ormai così profondamente parte della nostra lingua che è più comprensibile dell’equivalente traduzione italiana.
Tuttavia la questione dell’uso degli anglismi non è poi così scontata, se da un lato è vero che l’inglese attraverso la musica, film, serie tv- soprattutto nella pay tv- è divenuto una lingua molto più accessibile e praticata, è pur vero che il suo uso smodato ha irrigidito i puristi della lingua che, giustamente, lamentano come il suo continuo impiego, anche quando non è strettamente necessario, ha non solo reso più difficile esprimersi correttamente in italiano, ma ha posto nuovi problemi di interpretazione del messaggio perché non tutti sono in grado di afferrare il significato veicolato in lingua straniera.
Non tutti ad esempio conoscono il significato di triggerare, cosa che avviene molto spesso nella comunicazione in rete quando si scrive per provocare una reazione violenta, improvvisa, per istigare, far arrabbiare.
Deriva dal sostantivo inglese “trigger”, grilletto, innesco con l’aggiunta del suffisso – are innescare, far scattare.
Altro fenomeno che spesso si verifica sui social, descritto con un termine inglese è quello di “blastare” cioè attaccare, deridere o zittire, con violenza e pubblicamente, solitamente da una posizione di forza, chi ha palesemente detto una sciocchezza. Deriva dal verbo inglese “to blast”, far esplodere, distruggere, far saltare in aria, con l’aggiunta della desinenza -are della prima coniugazione.
Non è facile gestire le informazioni che internet, il grande contenitore democratico, ci mette a disposizione, sia per la sovrabbondanza di informazioni, sia per la loro qualità, spesso inquinata da pettegolezzi, e narcisismo sensazionalistico.
Mi piace, a tal proposito, ricordare “La poesia di Ronsard intitolata appunto “Madrigal”, che inizia con i versi “Que maudit soit le miroir que vous mire”. Siamo specchi, come tutti gli specchi il riflesso non è mai fedele, tendiamo a distorcere, a snaturare, contraffare. Nel flettersi polisemicamente, il verbo riflettere dà un senso e una direzione più pregnante alla dimensione umana: pensare, vagliare, porsi domande, non lasciarsi ingannare dal disordine informativo, smontando il luogo comune, la superficialità, la qualità della comunicazione, dà luogo a circoli virtuosi che tracciano un solco sano e salutare per entrare in relazione con l’altro.
Più che alla relazione, oggi il mondo sembra votato allo scontro, all’aggressione, alla ribellione violenta perché non ha come supporto un sistema di valori; ciò che accomuna i terrorismi, un incallito neoliberismo, gli xenofobi è l’approssimazione, la mancanza di un progetto etico, la volontà di affermazione basata su un rapporto di forza.
La violenza è un agire confuso, le manca la potenza dell’atto che deriva dalla capacità di verbalizzare, pronunciare, esporre. Già presso i Greci essere politici significava vivere nella polis, tutto, cioè, si decideva attraverso lo strumento della parola, l’arte oratoria era un atto politico. Solo nel contesto familiare poteva espletarsi la legge del più forte, imponendo la propria volontà, esercitando il ruolo di capofamiglia.
La violenza è muta, travolge non coinvolge, rompe gli argini, non ricompone fratture, viola qualsiasi valore di giustizia sociale e globale.
Greta Thunberg è l’incarnazione della capacità di interloquire col mondo e coi suoi capi, di smuovere folle affinché si realizzi l’idea di un pianeta e di un’economia più giusta che tenga conto dei diseredati, dei dimenticati, è la forza che nasce dalla capacità di una parola sostenuta dal coraggio rivoluzionario, in nome di un ideale di società solidale in cui il destino non è determinato dal luogo in cui si nasce, ma dalla possibilità di assicurare forme di democrazie diffuse in nome della comune umanità.
Perché ci sia reale democrazia bisognerebbe che la sovranità appartenesse al popolo. In Francia il voto popolare è a suffragio universale, è il popolo in persona che si reca a votare. Ma il popolo non è un’entità omogenea, ha certamente interessi comuni, quello di abbattere il potere che abusa della sua pazienza, quello che ama occultarsi, che non sa cosa significa avere difficoltà a sbarcare il lunario, rendersi furbi per poter sopravvivere, portare il fardello di trovare un lavoro che affranchi i propri figli dalle difficoltà sperimentate sulla propria pelle.
Considerare il popolo come una massa indistinta, però, è come negare che la ricchezza aiuta a vivere meglio, è banalizzare, chiudere gli occhi alla diversità, una sorta di miopia funzionale a procedere per categorie. Perché catalogare, schematizzare, sintetizzare ci consente di agire in modo più fluido, non perdersi nella specificità del caso.
La complessità non è mai omogenea, ha sfumature; quello che i populismi fanno è proprio individuare la radice comune da cui scaturisce la rabbia, l’insofferenza, per catalizzarla contro l’obiettivo. Sollevare, facendo leva sul disagio, non significa analizzarlo, comprenderlo, conoscerlo, abbracciarlo. Scendere nel disagio vuol dire sperimentarne le difficoltà, condividere necessità, come afferma Michel Onfray “Il popolo è quello che va in ufficio la mattina, quello che mette non la faccia, ma l’intero corpo in ciò che fa”.
Il populista, invece, è colui che individua il proprio nemico, si fa portatore di una superiorità morale che contrappone a chi, secondo lui, il potere lo detiene e lo esercita a scapito degli altri. Ē chi si vede rappresentato da Salvini che parla di nuovo Rinascimento europeo e si ispira alla politica xenofoba, nazionalista, di Orban, che considera l’immigrazione clandestina come il male dell’umanità, che scartando il diverso ripropone in forme nuove l’antico problema della superiorità della razza.
Più che di popolo, si potrebbe parlare allora di popoli, tenuti insieme da un’identità collettiva fatta di storie, sentimenti, desideri, solidarietà, coesione e principi etici comuni.
Perché se a volte la storia divide, sono le storie condivise che creano legami e ci consentono di evolvere.
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