Relazioni

Il lavoro degli educatori

Gli educatori non insegnano, non curano, non vendono. Accompagnano. Sorreggono. Riparano. Sono pagati poco, ma fanno il lavoro più difficile: tenere insieme ciò che si rompe.

24 Maggio 2025

Non costruiscono strade, non vendono prodotti, non generano profitti. Ma costruiscono legami, riparano ferite, tengono in piedi vite sbandate. Sono educatori. E lavorano dove nessuno vuole stare. Nelle comunità, nei centri diurni, nei servizi per minori, nei quartieri dimenticati. Entrano in case dove si respira rabbia. Parlano con chi non parla più. Ascoltano silenzi che fanno più rumore di una porta sbattuta. Aspettano. Tanti. Aspettano che un ragazzo risponda, che un bambino smetta di avere paura, che un padre torni a cercare suo figlio. Stanno accanto. Non impongono, non giudicano. Stanno. Anche quando fa male. Anche quando non c’è speranza. Anche quando non si vede il senso.

Si siedono sui gradini, mangiano panini freddi in macchina, ricevono messaggi alle due di notte. Non hanno orari veri. Non staccano mai davvero. Portano addosso le storie degli altri come cicatrici silenziose. Fanno turni su turni per uno stipendio che spesso non arriva a mille euro. Ma restano. Non per eroismo. Per fedeltà. Perché sanno che, se non ci fossero loro, molti cadrebbero senza che nessuno se ne accorga.

Non compaiono nei report ministeriali. Non partecipano ai panel sulla crescita. Non hanno voce nei talk. Ma sono là dove si misura la tenuta di un Paese. Dove si decide se un bambino finisce in carcere o a scuola. Dove un ragazzo può diventare padre, o delinquente, o nessuno. Dove la fragilità non è una parola astratta, ma un volto preciso, con nome e cognome. E un bisogno che non aspetta.

Vivono di rinnovi a tempo. Di cooperative al ribasso. Di incarichi sempre a scadenza. Ma portano avanti il lavoro più lungo che ci sia: la cura della libertà dell’altro. Si fanno insultare. Si fanno rifiutare. Si fanno amare. Ogni tanto qualcuno torna, anni dopo. Dice grazie. A volte no. A volte sparisce. E loro continuano. Senza trofei. Senza aumenti. Senza pacche sulle spalle.

Chiedono poco. Ma hanno diritto a tutto. Perché è a loro che affidiamo chi è in bilico. Chi ha visto troppo. Chi ha perso troppo presto. Chi non ha nessuno. Eppure, la loro retribuzione è un insulto. Un errore aritmetico. Un’offesa civile.

Ma restano. Con le loro agende piene di appunti incomprensibili. Con le scarpe rovinate. Con lo sguardo che cerca sempre un modo per ricominciare. Non sono santi. Non sono martiri. Sono lavoratori. E meritano di essere pagati. Bene. Perché, se crollano loro, crolla tutto quello che fingiamo di proteggere con le riforme.

Nessuno li racconta. Nessuno li ringrazia. Ma forse è da lì che bisognerebbe ripartire. Dall’educazione come atto politico. Dalla presenza come scelta civile. Dalla cura come visione di futuro.

Fanno il lavoro più fragile e più potente del mondo. Sacro come una preghiera laica.

 

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