Ambiente

L’Ilva e la metafisica del capitalismo

19 Novembre 2019

L’impulso narrativo ci appartiene. Il ricorrere a una trama, a un “noi” a cui annodarci, ci appartiene. Vuoi per difenderci dalla società di massa, vuoi per assecondarla, vuoi per cucire i pezzi di mondo che sfuggono. Ma ci appartiene e non ci molla.

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Anche quando diciamo con Cioran che “ogni contemporaneo è odioso”, in fondo, molto in fondo, cerchiamo compagnia nell’odiare il prossimo. Ovviamente, pescando nel prossimo. E per “prossimo”, sempre con Cioran, intendiamo “torbido”.

Persino il monologo collettivo dei social network echeggia la ricerca di un “noi narrante”. Così come il pluralis maiestatis di cui stiamo facendo largo uso mentre scriviamo: a metà strada tra l’orpello stilistico polveroso, il sotterfugio deboluccio per conferire spessore drammatico e, appunto, l’ipotesi di un lettore affine.

Eppure, per Lyotard la condizione postmoderna sarebbe contraddistinta proprio dalla scomparsa dei meta-racconti (Illuminismo, Idealismo e Marxismo), ossia di quei grandi contenitori narrativi in grado di restituire alla realtà un senso unitario, sposabile o contestabile dalle collettività in cerca d’autore e direzioni storiche.

Una crisi dell’industria teoretica, e del “noi”, che per Lyotard medesimo, invero, lungi dal ficcarci tra le fauci del baratro, rappresenterebbe, invece, una preziosa opportunità: sostituire le morbide teorie unificanti con una sovrapproduzione di ruvido disincanto non è detto che sia un male, anzi. Uno sciame di io slegati da un testo, aforistici, a zonzo tra le molteplici forme del sapere, lontani dalle derive dogmatiche, è preferibile. Nessuna nostalgia per il “noi narrante”.

In sostanza, una visione ottimistica perfettamente in linea con il luogo comune pseudoetimologico, parecchio in voga, sul termine cinese Wēijī: il quale, per i pensatori smart, conterrebbe, appunto, sia il concetto di “crisi” sia quello di “opportunità”.

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Ma è davvero così che stanno andando le cose?

La nostra sensazione, e sottolineo “nostra”, è che quei meta-racconti, forieri di utopie rivoluzionarie, si siano effettivamente estinti. Tuttavia, anziché prender piede il disincanto ipertrofico pronosticato dal pensatore francese, si è verificata la stipulazione di un nuovo patto narrativo, con annessa sospensione dell’incredulità. Questo perché un’ultima narrazione metafisica con cui accordarsi, la più potente, è rimasta intatta: il capitalismo.

Un sistema produttivo che, sebbene generi disuguaglianze economiche sempre più consistenti e devastazioni ambientali irreversibili, riesce, serenamente, nell’impresa di proporsi come orizzonte insuperabile. Un orizzonte degli eventi oltre il quale le leggi dell’antropologia così come le conosciamo perderebbero di significato: questa è la sola convinzione siderurgica da cui si può partire, malgrado la società globale, in larga parte martoriata, e l’intelligenza non siano a proprio agio nell’ammetterla.

La metafisica del capitalismo non concede buchi narrativi, al massimo concede qualche sottotrama avvincente: che essa si chiami sovranismo, riformismo o populismo poco importa. L’importante è che la trama principale mantenga la sua piena consistenza.

Ragion per cui, sempre per la suddetta sospensione dell’incredulità insita nel patto narrativo grazie alla quale ci si ciuccia di tutto, scopriamo, “all’improvviso”, che le multinazionali tendono ad africanizzare anche l’evoluto Occidente, ricattando, ad esempio, con la desertificazione industriale (vedi l’Ilva, vedi Whirpool). Scopriamo che questa dinamica diventerà prassi quotidiana, perché il potere contrattuale di chi pretende diritti sociali è stato azzerato. Scopriamo che l’antidoto, da destra, è la chiusura dei porti da abbinare al protezionismo: il bunker-power. Da sinistra, il lasciare tutto com’è. E per sinistra, nell’accezione mainstream, intendiamo quella scimmia ideologica al guinzaglio di quella destra liberale mai esistita nel nostro paese.

Economia circolare? Green New Deal? Il presente racconterebbe altro. Racconterebbe di altiforni prossimi alla chiusura nella totale impotenza della politica. Di una produzione a ciclo continuo di acciaio e veleno destinata a interrompersi dopo anni di emergenza perpetua e mancate bonifiche. Di una catastrofe sociale pronta a far da pendant a un catastrofe ambientale.

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E se Marx, nel 1853, può dire che “la profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno dinanzi senza veli, non appena dalle grandi metropoli, dove prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude”. Noi, un “noi” piuttosto sfilacciato, possiamo dire, nel 2019, che “l’intrinseca barbarie della civiltà borghese” ha smesso di portare le mutande anche dalle nostre parti. Questione di racconti e di meta-racconti.

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