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Calcio

Il Milan esce dal nostro corpo, il Cav. resterà

di Michele Fusco
13 Aprile 2017

Con l’autorevolezza (calcistica) che mi viene riconosciuta, ho salvato molte volte il fondatore e direttore di questa testata, il rossonero Jacopo Tondelli, dall’abisso del tifoso, la condizione di incoscienza a cui ha pieno e rispettato diritto in quanto azionista esclusivamente sentimentale e dunque prodigo di madrigali anche quando basterebbero due righe di un bacio perugina. Votato sempre e comunque a considerare ogni scelta una buona scelta, se celebrata all’interno del tempio milanista, il tifoso non prevede mai la delusione, non è strutturalmente compatibile con la sua condizione di innamorato. Insieme a Jacopo, ricondussi più volte alla ragione anche l’irruento Alessandro Da Rold, oggi puntero giudiziario di Lettera43, curvaiolo spinto che nel tempo si è fatto consapevole. In questi anni tormentati e imperfetti – tutto è imperfetto quando svanisce la perfezione del “club più titolato al mondo” – la tensione ad accontentarsi di un purchessia è stata molto forte, al punto che gli amici del cuore sbandarono per Seedorf considerandolo animale (anche) da panchina. Panchina che il medesimo genietto sradicò materialmente dal terreno verde, dove tutti sedevano democraticamente, per ricavarne un comico palchetto reale a due posti (lui e Tassotti) da Borgorosso football club. Per dire di Seedorf, di cui anticipai la stronzaggine e l’insipienza tecnica da allenatore, ma su molti altri dovetti intervenire, come sempre con buoni giorni di anticipo, per richiamare anche gli affetti più cari al dovere di una dignità che per un ventennio ci permise di battere il mondo in lungo e in largo ricavandone gloria e denari. Fino alla quasi rottura definitiva, si era tutti a Linkiesta in quell’epoca, quando ebbi a definire Pato una «motozappa», sapendone bene le doti tecniche ma altrettanto quelle intellettuali la cui riserva non era esattamente un pozzo senza fondo (inutile ricordarvi che lo scellerato, grazie al movimento sex con Barbarella, fece sfumare a tutti noi l’affare del secolo, si prendeva Tevez e un pacco di milioni pure, ma Barbarella si presentò nella notte da papino e lo implorò di non concludere).

Per dire che proprio l’amore sconsiderato di questi cari amici per il Milan, oggi mi fa ragionevolmente pensare che la speranza di riprovare sentimenti è definitivamente perduta. Non potevo pensare, trent’anni fa, che oggi sarebbe mai arrivato. Credevo che avrebbe retto, il vecchio. Per sempre e fino alla morte. Allora giovinetto cinquantenne, Berlusconi aveva chiarissima l’idea di famiglia. La famiglia Fininvest, allora Mediaset non esisteva ancora, era una vera famiglia. Molto compatta nei suoi uomini “migliori”, senza sbavature, “il sole in tasca, come da recita Publitalia. Considerato come un provinciale a New York, il Cav. ha dovuto scalare la diffidenza dei benpensanti e non fu impresa da pochissimo. Era il tempo in cui neppure gli passava per la testa di sedersi tra gli elefanti di Confindustria, considerandoli bolsi e politicamente intruppati, era il tempo dello sviluppo televisivo e sapete quanto poi le televisioni contarono. Ma il Milan fu una vera intuizione, prima ancora della seconda altrettanto potente che fu poi Forza Italia. Il Milan è stata la prima Forza Italia di Berlusconi. Un motore assoluto e capillare per spargere dovunque tracce di sé, con l’idea di farne una macchina da guerra perfetta e senza essersi mai rivelato – questo il colpo di genio – come un grande e appassionato tifoso di quella squadra che aveva deciso di comprare da un fallimento (inizialmente staccando un assegno di sei miliardi e qualcosa di lire). Il tifoso vero, in famiglia, era senza ombra di dubbio il Confa, lui lo vedevi tranquillamente in anni lontani con il suo impermeabile chiaro in tribuna centrale, regolarmente pagata con abbonamento. Fidel era il tifoso, non Silvio e tanto meno Galliani, semmai attenzionato come gobbo. Il Cav. ha avuto un’attitudine che ne ha fatto la belva che è stato: è sempre stato il primo a imparare il nuovo gioco. È stato così nel calcio, è stato così in politica. Ha mandato in frantumi quell’espressione negativa che ci è così cara per definire il nuovo venuto come “un dilettante allo sbaraglio”. Ogni cosa ha avuto un senso, niente di arrangiato, mai. Molti hanno cavalcato le sue visioni, e lui stesso se ne lamentò con il sottoscritto quando s’accorse che su Tuttosport persino Mike Bongiorno si vantava d’aver segnalato Gullit al Milan. «Vede – mi disse – io lascio parlare ma questa è veramente da fuori di testa». Sceglieva lui, facendosi consigliare e facendosi anche convincere. Quando volle non solo convincere ma anche imporre, e dall’altra parte c’era l’Arrigo, arrivò a Milanello un tal Borghi che tirava i corner di tacco così da mandare in pezzi il fegato dell’omino «straordinerio» di Fusignano. Ebbe ragione l’omino, ma molte altre volte vinse il Cav. evitando di dar seguito alle mattane dell’Arrigo che voleva vendere Tassotti, Massaro e persino Van Basten “perché non mi torna a centrocampo”.

Se dico che è morta la speranza di riprovare sentimento, qualunque sentimento, è perché la vita con quel presidente è stata irrepetibile e sarebbe da folli ripensarne un’altra con un improbabile cinese sotto schiaffo americano che si veste come si veste. Se c’è un caso in cui è giusto, legittimo, sacrosanto vivere nella piena nostalgia è esattamente questo, rischiando di passare per anima bella, per anti-modernista, per un elettore di Berlinguer, giusto per metterla in politica. Vivere con la nostalgia nella testa e in tutti i cassetti che strabordano di foto e di coppe, fa vivere molto male tutto quello che verrà. Ma lo considero inevitabile, e dunque è giusto attrezzarsi per questo male necessario.

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