A.I.
AI: è arrivato il momento di prendere contromisure cognitive e puntare sull’allenamento delle abilità critiche
Finora ho letto diverse analisi e riflessioni sull’impatto che le intelligenze artificiali generative (AI) stanno esercitando – e che eserciteranno in misura sempre più significativa – sulle nostre vite. Ho esaminato gli argomenti a sostegno dei benefici attesi in ambito aziendale, professionale, nel contesto della well‑rounded education e, più in generale, in ogni interstizio della nostra dimensione privata e pubblica; e proprio da questo ultimo aspetto parte la mia riflessione.
Ho letto considerazioni fortemente allarmistiche incentrate sui rischi connessi alla diffusione massiva delle AI così come tesi di segno opposto, improntate a un entusiasmo incondizionato. Personalmente, ritengo che le AI non vadano demonizzate, anzi, ma che occorra dotarsi di un mindset funzionale all’uso cosciente dell’intelligenza artificiale, finalizzato a trarne vantaggi pratici ma in sicurezza. Dunque occorre imparare a pensare il nostro rapporto con l’AI e immaginare che l’interazione avviene con una tecnologia la cui influenza potrebbe incidere sulle nostre scelte e decisioni quotidiane. Per tale ragione credo che sia di fondamentale importanza spiegare agli utenti come dotarsi di meccanismi di difesa cognitiva per un utilizzo consapevole, sicuro e libero.
Sempre più persone si affidano alle AI per effettuare ricerche, ipotizzare diagnosi su specifici sintomi, analizzare esami medici, chiedere opinioni, dialogare di aspetti personali e intimi. Chiaramente, tutto questo ci pone davanti a problemi di regolamentazione e di protezione dei dati che, seppur esistenti da prima dell’avvento delle AI – come Shoshana Zuboff ha magistralmente raccontato nel suo Capitalismo della Sorveglianza – non raggiungevano una portata così pervasiva e invasiva della nostra sfera più intima e profonda. Quello cui abbiamo cominciato ad assistere è infatti il prodromo di un possibile trasferimento di informazioni ed esperienze esclusivamente nostre, non replicabili altrove, dalla dimensione corporea ad una extra-corporea. Un dominio, questo, ancora giuridicamente indefinito, gestito da colossi tecnologici perlopiù statunitensi. Se questa migrazione di dati avviene in modalità di “attenzione ordinaria” anziché di “attenzione attiva”, potremmo definirla a ragione un vero e proprio “furto dell’anima”: un fenomeno con un impatto antropologico difficilmente controllabile e del tutto nuovo nella storia evolutiva umana.
Per arginare i rischi e contemporaneamente cogliere le opportunità offerte dall’IA, è necessario un intervento formativo organico, con le istituzioni scolastiche e le agenzie educative chiamate a svolgere un ruolo centrale. Infatti, se il pericolo principale riguarda i nativi digitali e le generazioni future, l’azione più efficace passa attraverso il rafforzamento di alcune abilità cognitive di base, prima fra tutte l’attenzione attiva: uno stato mentale che richiede un pensiero intenzionale, vigile e profondamente calato nel momento presente, capace di interrogarsi continuamente sulla dinamica in atto. Solo in questo modo potremo mantenere il controllo sulla nostra interazione con l’AI, evitando che il dialogo diventi una cessione inconsapevole di frammenti di sé stessi.
Credo che l’idea di “allenare” l’utente a un nuovo mindset per interagire con un’IA non sia soltanto utile, ma quasi inevitabile, perché il dialogo con un modello come GPT è profondamente diverso da qualsiasi altra forma di comunicazione digitale. Occorre iniziare riconoscendo i limiti e i punti di forza di queste tecnologie: da un lato, l’incredibile capacità di elaborare e sintetizzare informazioni in tempi brevissimi; dall’altro, la possibilità di produrre risposte incomplete o imprecise quando mancano contesto o istruzioni chiare. Per questo diventa essenziale formulare richieste precise, fornendo sempre obiettivi e dettagli, e adottare un metodo iterativo che preveda la verifica puntuale dei risultati, la raffinazione dei prompt e il continuo aggiustamento fino a raggiungere lo scopo desiderato. Allo stesso tempo, è fondamentale mantenere uno spirito critico: ogni output generato dall’IA va confrontato con fonti affidabili e valutato con le proprie “abilità critiche”. Un approccio creativo alla sperimentazione, provando angolazioni inedite e scenari ipotetici, può inoltre arricchire il lavoro professionale e la riflessione personale. Infine, la dimensione etica e della privacy deve guidare ogni interazione: condividere solo i dati strettamente necessari, anonimizzare le informazioni sensibili e scegliere soluzioni che garantiscano la riservatezza.
In definitiva, il nuovo mindset di cui ho parlato non è un semplice strumento di efficienza, ma la premessa per un’interazione consapevole, responsabile e creativa con l’intelligenza artificiale. Solo così potremo trasformare l’IA da potenziale “ladro d’anima” in un alleato capace di espandere le nostre capacità cognitive, senza mai rinunciare al controllo e alla nostra libertà di pensiero.
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