RIMINI – «Gli albergatori riminesi non si fermano davanti a niente, mai. Rimini fu l’unica città che non partecipò alla Settimana Rossa, nel 1914, perché era giugno e c’erano i primi bagnanti. Tutte le componenti sociali furono d’accordo sulla necessità di fare un’eccezione: mentre tutto attorno si facevano prove di rivoluzione socialista, peraltro sobillate da un socialista romagnolo di nome Benito Mussolini, a Rimini si accoglievano i ricchi turisti che arrivavano coi loro bauli al Grand Hotel». Sembra una fotografia stinta, quella che Stefano Pivato, riminese doc, professore di Storia Contemporanea a Urbino tira fuori. E invece oltre un secolo dopo i colori sono vividi: il sottinteso è che se Rimini non si fermò nemmeno di fronte allo spettro del socialismo reale e dell’esproprio proletario, contro il quale il vaccino fu rinvenuto solo 70 anni dopo a Berlino, figurarsi se si fermerà per il Covid, per il quale, peraltro, il vaccino è già arrivato. Ed è per questo, per tutto questo, che qui «è un mese e mezzo che i bagnini sistemano la spiaggia». Perché sanno che l’estate arriverà puntuale, come i treni arrivavano in orario, carichi di dopolavoristi e bambini che – quando c’era Lui che nel frattempo aveva smesso di essere socialista ma era rimasto dirigista – videro per la prima volta il mare.
In effetti, lungo la direttrice che unisce la grande spiaggia all’infinita linea di alberghi di ogni forma e categoria di quel “tenero pastrocchio” – parole di Federico Fellini – che è Rimini, l’ottimismo non si lesina. Scorre fresco e abbondante, come fosse Sangiovese.
«Sono sicuro che quando si ripartirà avremo la coda, di gente ce ne sarà tanta, come sempre» racconta Mauro Vanni, all’ombra del bagno 62. Lui, presidente della cooperativa di bagnini che raccoglie 117 gestori delle spiagge riminesi, è membro di una delle migliaia di «imprese-famiglia, che sono la caratteristica storica di questo territorio. La nostra forza e insieme la nostra debolezza». E se l’anno scorso “si sentiva la paura e le discussioni erano sul plexiglas in spiaggia, quest’anno la sensazione è che appena si aprirà ci sarà l’invasione”, gli fa eco Monica Mazza, che comunica il turismo del territorio dalle alture di San Marino e anche lei è figlia di una famiglia-impresa di quelle che hanno costruito il “modello Rimini”. Un modello che, in effetti, si è sempre fondato sull’apertura delle porte delle proprie case a lombardi e tedeschi, bolognesi e svedesi, tutti radunati nell’unica famiglia di lunghe estati di paste fatte in casa, pesci fritti e piadine stese dalla nonna. Un rituale in cui i pranzi e le cene di famiglia erano preparati dalle stesse mani che li preparavano tutto l’anno, solo che d’estate la famiglia era molto più grande. È finito il tempo delle vacanze lunghe fatte integralmente qui, lo dicono tutti. Ma chi prima veniva tre settimane oggi viene due week end lunghi, almeno. Dove hanno scoperto la Riviera, quelli che ci tornano? Là dove c’era un pezzo di terra e una casetta per cinque persone, un condono dopo l’altro ci siamo trovati con una pensione da dieci, dodici, o venticinque stanze. «Una tipologia di impresa turistica presa pari pari dall’economia mezzadrile» spiega Pivato «in cui tutti i membri della casa dovevano concorrere al reddito, e solo così quel modello economico poteva essere sostenibile. Io, migliaia e migliaia di bambini in riviera abbiamo servito in tavola nelle pensioni di famiglia. Il contributo di tutti, dai piccoli agli anzianissimi, era parte integrante del modello». Il resto lo ha fatto un paese che aveva voglia di ripartire, bisogno di dimenticare, ansia di vita dopo essersi trovato circondato dalla morte. C’era, anche allora, il “debito buono” di cui si parla tanto adesso. «Un nostro concittadino illustre, Sergio Zavoli, diceva che a Rimini avremmo dovuto erigere un monumento alla cambiale» prosegue Pivato. Perché sulla cambiale è stata costruita una città e un’industria, quella del turismo. D’inverno si firmavano le cambiali che servivano per finanziare gli ampliamenti edilizi e i lavori di ristrutturazione. D’estate si facevano gli incassi che servivano per ripagarli. E così via, un anno dopo l’altro.
Una terra che la mobilità sociale doveva davvero avercela nel sangue, quasi fosse davvero questo il “genius loci”. Una mentalità che guarda avanti e se ne frega dei limiti, delle difficoltà e, quando ci sono, anche dei divieti. «C’è un episodio significativo, che risale agli anni Sessanta. Un assessore all’istruzione del comune di Rimini, molto bravo, iniziò a organizzare viaggi scolastici nei campi di sterminio tedeschi. Ci fu una sollevazione degli albergatori e degli operatori turistici che temevano di offendere i tedeschi e perdere quote di mercato». Così, tirando dritto, intere generazioni contadine si sono trasformate in pochi decenni in imprenditori del turismo e della rendita immobiliare, il professore universitario che mi parla a dieci anni portava il vino in tavola nella pensioncina di famiglia e pure Sergio Zavoli fu notato nel 1946 perché «Vittorio Veltroni sentì la sua voce all’interfono della spiaggia per cui lavorava, ne fu colpito e lo portò a Roma per fare radio». Negli anni ruggenti quel che toccava Rimini diventava oro, o almeno scintillava come se lo fosse. «Pensa a una canzone amara e disillusa, dedicata alle terre promesse non mantenute, come Rimini di De Andrè. L’ottimismo romagnolo è tanto potente da averla trasformata in un inno popolare alla bellezza delle vacanze in riviera».
Anche in Romagna come un po’ dappertutto, la mobilità sociale dei nonni è diventata la rendita dei figli e il debito dei nipoti. La pandemia è arrivata a rendere più chiaro quel che chiaro doveva essere già. Un modello in crisi, che rischia di saltare? «Anche questa sarà un’occasione di cambiamento positivo che sapremo sfruttare e cavalcare», dice sprizzando ottimismo Patrizia Rinaldis, presidente degli albergatori riminesi. La incontro in una laterale del porto canale, a due passi dal Grand Hotel ma in una stradina dimessa che somiglia a tutta la città, peraltro: case basse, disordine urbanistico, il sorridente casino che sembra sempre il marchio di fabbrica, a Rimini. «Del resto in riviera ci tornate sempre tutti, anche voi giornalisti spesso venite qui perché avete delle emozioni infantili o adolescenziali che vi spingono qui. È a suo modo una forma di turismo esperienziale ed emozionale, e abbiamo un’offerta fatta di tanti ingredienti diversi tutti vicini. Il mare, le colline, i borghi, San Marino«. La paura è la mancanza di chiarezza nei messaggi, il perdurare del coprifuoco – «non chiamarlo coprifuoco, mica siamo in guerra!» -, la non chiarezza sul pass vaccinale. Ad esempio, cosa succederà se un vaccino adottato da molti paesi, come Sputnik, non dovesse essere riconosciuto? «Più passa il tempo e peggio è, per le prenotazioni dall’estero». Un turismo estero che per qualche anno, anni fa, aveva iniziato a parlare vorticosamente russo, potere di accordi aeroportuali e della vicina “Disneyland” di San Marino, in rapporti amichevoli molto risalenti con Mosca, come dimostra anche la ricca fornitura di Sputnik. Ma come sono venuti, così i russi se ne sono andati e Rimini torna a sperare nei vecchi amici, a cominciare dai tedeschi. «Di solito cominciano a venire per Pentecoste, che è la prima vacanza di inizio estate, ma quest’anno non sarà possibile». Ma i primi segnali che arrivano dagli alberghi sono «comunque positivi, sia in termini di prenotazioni che in termini di assunzioni e ricerche di personale». Se l’anno scorso ce la siamo comunque cavata, è il ragionamento, perché non dovrebbe andare sensibilmente meglio quest’anno che il mondo sta ripartendo e abbiamo i vaccini? Una cosa è sicura, il bonus facciate ha intanto sbloccato l’edilizia, e un po’ dappertutto – dove ti giri ti giri – trovi vecchie case impacchettate, e anche alcune delle pensioni che anno dopo anno e sanatoria dopo sanatoria sono diventate abitazioni troppo grandi per i mesi invernali, e alberghi troppo piccoli per quelli estivi. Uno sblocco che rischia di diventare un blocco, raccontano, perché le richieste di ristrutturazione sono così tante che non si trovano più le impalcature, o le materie prime, o le imprese che possano fare i lavori: o tutti questi ingredienti, indispensabili, insieme.
«Sto coprifuoco va tolto al più presto, questo è sicuro». È meno ottimista Gianni Indino, presidente di Confcommercio e dei gestori di sale da ballo. In Romagna un gruppo che, prima che fare pressione economica, sembra essere un sindacato di identità che attraversa le generazione e i generi, unendo le notti folli delle discoteche e le serate languide delle balere in cui, immancabile, almeno una volta si deve girare la pista sulle note di Romagna Mia. «Se non togliamo il coprifuoco non andiamo da nessuna parte, e bisogna farlo in fretta dopo che abbiamo detto al mondo che l’avremmo tenuto fino al 31 luglio… Mi dite che viene in vacanza in un paese dove alle dieci tutti a nanna?». Una cosa è certa: a Rimini il coprifuoco esiste davvero, e viene rispettato. Il confronto con l’ipocrita rituale delle città, in cui esiste per modo di dire, è impietoso. Il lungomare dopo le dieci è deserto, buio e silenzioso. Le musiche che escono dai pub si spengono di colpo, come se fosse andata via la corrente. Di fronte ai dehors dei ristoranti che non mettono abbastanza fretta ai pochi clienti, arriva puntuale un auto della finanza o della polizia locale, lasciando il lampeggiante acceso. Senza eccessiva fiscalità – niente multe, per capirci: ma in cinque minuti restano solo i camerieri a raccogliere le ultime tovaglie, prima di accendere lo scooter o il monopattino, per tornare verso casa. Indino mi sventola un piego di fogli davanti: «Lo vedi? Questo è il protocollo per riaprire le discoteche in sicurezza, firmato da due grandi studiosi come Lopalco e Bassetti… stiamo già lavorando per applicarlo a tre serate sperimentali: una a Milano, una San Marino e una a Gallipoli». Lui, per mestiere, tiene insieme chi somministra techno e Gin Tonic e chi diffonde mazurke e vino rosso. «I frequentatori delle balere sono ovviamente più anziani, quasi tutti vaccinati. Perché non iniziamo ad aprire quelle?». Ma si aspettava più aperture da Draghi, è deluso? «Onestamente sì, siamo passati dalle chiusure di Conte alle timide riaperture di Draghi, e mi aspettavo molto di più». Il settore per la verità è stato uno di quelli più aiutati e sovvenzionati, anche perché è stato tra i più colpiti dalla crisi. «E non dimentichiamoci che dopo anni di campagne di denigrazione e di odio nei confronti delle discoteche, come se il compito di educare i giovani spettasse a noi, abbiamo già perso tantissimi spazi. Anche qui in riviera han dovuto chiudere dei veri e propri monumenti del ballo». Suona il telefono. Risponde: «Ciao Assessore», e poi sento ripetere sostanzialmente gli stessi concetti. Il pensiero è tutto per il “turismo giovane”: quello delle discoteche, certo, ma anche quello dei parchi tematici che da sempre “completano” l’offerta del territorio. «Comunque, vorrei che fosse chiaro un concetto: se le discoteche non scavallano quest’estate, il settore è morto».
Ma davvero il Covid sarà il colpevole, se mai succederà, della crisi di un’industria simbolo, come quella delle discoteche? Davvero insomma è stata la pandemia a cambiare le carte in tavola? «Se qui non ci diamo una svegliata questo territorio è destinato a un lento e inesorabile declino» dice Maurizio Melucci, già vicesindaco di Rimini ed ex assessore al turismo della giunta regionale, e oggi animatore del giornale online dedicato al territorio Chiamami Città. «Nel breve io non ho dubbi che ci riprenderemo e che la stagione andrà bene. Ma poi tutti i nodi verranno al pettine, e sono gli stessi nodi che poi riguardano buona parte del turismo balneare italiano». Torniamo lì, a quel modello da cui siamo partiti, fondato sulla cambiale, lo sviluppo edilizio, un’intera famiglia dedicata a mandare avanti pensioni “all inclusive”, dalla colazione al dopocena. «Un modello che, semplicemente, non funziona più e sta finendo definitivamente fuori mercato». Guardando allo sprawl edilizio che assedia la spiaggia, Melucci mette in fila qualche dato essenziale. «In pochi chilometri, a Rimini sud, abbiamo 650 alberghi di piccole o piccolissime dimensioni, spesso nemmeno di proprietà di chi gestisce l’attività. Insomma, edilizia vecchiotta, su cui si investe poco. Un modello che non può funzionare, va drasticamente ridotto il numero delle strutture ricettive, e bisogna immaginare di fare grandi centri di servizi condivisi di qualità». Indica l’albergo di fronte al quale si svolge la nostra conversazione e spiega che questo è stato il penultimo albergo nuovo costruito a Rimini. «Non l’altroieri eh, nel 1998». È anche uno dei pochi che ha un buon centro benessere, aggiunge. «Ma non avrebbe più senso immaginare che la città si dotasse ad esempio di un grande centro benessere di eccellenza, che funzioni per tutti? E lo stesso vale per le spiagge: possibile che i bagnini, anche adesso, con la spada di Damocle delle concessioni da mattere a gara sulle spalle, pensino solo a rivendere le licenze, invece di capire che in un mondo normale saranno i gruppi alberghieri a voler gestire direttamente le spiagge, con più efficienza di loro?». Dalle parti della spiaggia i bagnini fanno notare che è impossibile fare investimenti senza poter fare ragionevole affidamento su una durata della concessione che permetta di rientrare. La questione è annosa ma riporta al solito problema, quello della scala dimensionale. «Questa riviera deve funzionare come un’area vasta e interconnessa, che va da Ravenna a Cattolica. Sono 70 km e c’è una grande offerta di ospitalità e occasioni di divertimento. Ma deve diventare normale che una famiglia che sta a Cesenatico possa decidere di andare a Riccione a pranzo. Per farlo, ovviamente, serve una connettività veloce e leggera, tipo una metropolitana. Abbiamo tutto per farlo, serve la volontà». Il recovery plan potrebbe aiutare, forse. «Sì, in parte sì, ma non mi sembra sia colta abbastanza, nel documento, la necessità di una transizione energetica che sul nostro territorio è tutta da fare, col patrimonio edilizio e le infrastrutture di mobilità che abbiamo».
E pensare che, davvero, l’area vasta è una metropoli tascabile tutta in riva al mare. Con ventitre minuti di treno, su una tratta monorotaia d’altri tempi, si arriva ad esempio a Gatteo a Mare, frazione di Cesenatico. Una strada sola che arriva dalla campagna e dalla minuscola stazione ferroviaria fino alla spiaggia. Ai lati, qualche negozio chiuso, palazzine che si affittano, qualche villa. Sotto il portico di una di queste mi accoglie Mirko Casadei. È una casa grande, vicina ad altre case simili, tutte nello stesso recinto: il recinto Casadei. «Raul diceva sempre: Voglio che la morte mi trovi vivo. E alla fine è stato così». Il lutto è ancora fresco, per la morte di Raul Casadei, mito delle balere di tutta Italia, orgoglio della Romagna nel mondo. Suo figlio Mirko racconta bene l’orgoglio della tradizione che non vuole però rassegnarsi all’immobilismo, alla replica di un passato che – proiettato nel futuro – diventerebbe patetico. «Da anni lavoriamo per avvicinare il liscio al folk, anzi per far riemergere l’anima folk del liscio. Avremmo potuto accontentarci di continuare con la band Casadei a fare il repertorio di sempre, con le sonorità di sempre. Ma Raul diceva sempre che voleva continuare a giocare in Serie A: e per farlo devi inventare, innovare, sperimentare». Da questa spinta – ricorda Mirko con orgoglio – sono nate le collaborazione con Gloria Gaynor, Mark Ribot o Goran Bregovic. Uno standing elevato e impegnativo da mantenere che vuole portarsi dietro, verso il futuro, quando ripartirà davvero il mondo della musica. «È stato un anno durissimo per tutti. Ma ovviamente, più che per me, sono dispiaciuto e preoccupato per tanti operatori del nostro settore, dello spettacolo dal vivo e della cultura, che per essere competitivi in termini di tecnologia e macchinari devono fare investimenti da centinaia di migliaia di euro, e che ormai da un anno sono fermi ai box». Nell’orizzonte di quest’estate che arriva vede un po’ di doverosi omaggi al mito del padre, un festival – “Balamondo” – a settembre, e tanta voglia di ricominciare a suonare e a vivere. «Ci arriviamo cambiati, cresciuti, dopo un tempo che ci ha portato a capire meglio tante cose, anche obbligandoci al silenzio e al dolore».
Sono toni inattesi, in quella valle di latte e miele, sorrisi e allegria, che è la Romagna. O forse sono solo parole di saggezza, che servono a pulire gli sguardi troppo prigionieri dei propri stereotipi. Poco lontano, sulla spiaggia dorata e deserta, un’anziana madre e una figlia stanno all’ombra di un chiosco. Un ragazzo predispone la pedana di cemento che accompagnerà migliaia di passi fino alla battigia. «Siamo tristi, sa, ieri è morta la mia cagnolina che mi ha tenuto compagnia per una vita, sedici anni, qui, in spiaggia, mentre lavoravo» mi dice la proprietaria, portando un caffè. La prima stagione senza quell’amica, si chiamava Clara, ma circondata dagli amici-clienti di sempre. Che torneranno come ogni anno su quel lembo di spiaggia immutabile, andranno nella solita pensione, ordineranno la solita piadina. Perché una delle ragioni per cui si torna sempre qui «è che l’unico imprevisto possibile è il tempo, qualche rara pioggia: per il resto non cambia mai nulla». O così sembra. E quel che sembra diventa vero: almeno per il tempo, sempre più breve, di una vacanza in riviera.
(Grazie a Gianluca Angelini e Marcello Flores per il prezioso supporto da remoto)
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.