La variabile saudita nel gioco del terrore

28 Novembre 2015

Immaginate 55 persone in fila, circondate da uomini armati, mentre vanno incontro al boia. Saranno decapitati, o impiccati in piazza. Quelli che se la sono cavata con poco, frustati pubblicamente. No, non si parla di Daesh. È quello che, secondo una denuncia di Amnesty International accadrà nei prossimi giorni in Arabia Saudita.

Eppure nessuno provvederà a girare un video della mattanza in HD, nessun canale all news lo trametterà, nessun sito web vi fornirà la photo gallery. Perché con l’Arabia Saudita non si eccede mai, meglio non discutere con un governo che coincide con i mille rivoli di una sola famiglia, quella reale.

Le condanne sono state inflitte tutte per reati di terrorismo. Tra coloro che incontreranno il boia, ci sono molti sciiti, minoranza nel reame saudita, attivi nelle proteste del 2011, che chiedevano maggiori diritti per la comunità. Ci sono parenti dei leader spirituali del gruppo, semplici manifestanti. Un regolamento di conti, insomma, presentato come atto giudiziario di uno Stato che è da sempre oltre tutti i limiti dello standard internazionale minimo dei diritti umani.

Eppure nessuno dirà una parola. Anche se l’anno scorso sono state 90 le sentenze capitali eseguite in Arabia Saudita e alla fine di quest’anno saranno 150. Riad ha sempre risposto che le condanne sono in linea con la legge coranica, ma nessuno s’indigna come come Daesh. Perché?

I motivi, ben spiegati in un libro che ancora oggi resta tra i più informati sul tema, sono raccolti dal giornalista francese Pascal Menoret, che nel suo Sull’orlo del vulcano tracciava il profilo di un regime brutale, a gestione familiare, travestito da teocrazia.

«L’Arabia Saudita è un Isis che ce l’ha fatta», ha scritto lo scrittore algerino Kamal Daoud sul New York Times. Ed è vero. Un legame indissolubile lega la famiglia Saud al clero religioso saudita, fin dai tempi della predicazione di Mohammed ibn Abd al-Wahab, nel ‘700. Le sue idee radicali, l’odio per gli sciiti e l’idolatria, lo portarono a spostarsi spesso. Veniva espulso, veniva percepito come un fanatico. Fino a quando arriva in Arabia Saudita e incontra, e converte alle sue idee, Abd al-Aziz al-Saud.

È l’inizio di un sodalizio che perdura nei secoli, impregnando quello stato che non esiste, perché nella lotta per il potere i Saud sottomettono le altre realtà della penisola fino a farsi stato. In una gestione ibrida del potere, tra clero religioso e famiglia reale. Gli uni ‘certificano’ lo status di ‘custodi dei luoghi santi’ – Mecca e Medina – per la famiglia, che li lascia liberi di fare quel che vogliono, ma di non mettere mai in discussione il loro potere.

Solo che per gli Stati Uniti e l’Europa, l’Arabia Saudita è un partner chiave, ricco di petrolio come è. Ecco che tutto è perdonato, taciuto, quasi nascosto. Anzi, in alcuni casi, la cooperazione travalica lo storico scambio armi e protezione in cambio di petrolio, sancito già negli anni Quaranta sul ponte dell’incrociatore Uss Quincy, da Franklyn D. Roosvelt e Ibn Saud.

Un legame che diventa sempre più serrato, soprattutto quando nel 1979 l’imam Khomeini rivescia lo scià di Persia. Da quel momento, l’ossessione endemica dei sauditi per lo sciismo e per il controllo del Golfo Persico – geopolitica religiosa – diventa la stella cometa della politica estera del regno. Mentre l’Unione Sovietica invade l’Afghanistan. E il patto con il diavolo diventa d’acciaio.

Basta leggere il tono di un vecchio articolo del New York Times, nel quale Osama bin Laden è presentato come un eroe della resistenza anti sovietica. Alexis Varende, su OrientXXI, lo ha ricostruito molto bene in questi giorni di terrore a Parigi e dintorni. All’interno, la casa regnante schiaccia la testa del movimento, quando questo mette in dubbio la liceità dei costumi della famiglia reale, ma lo esporta in tutto il mondo: Cecenia, Bosnia-Erzegovina, Algeria e tutto il sangue che è stato versato in questi anni.

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Proprio nel 1979, come racconta molto bene il libro L’assedio alla Mecca di Yaroslav Trofimov, quando un gruppo armato sequestra i fedeli nella grande moschea. Provenienti da una dozzina di paesi diversi, guidati dal predicatore Juhayman al Uteybi, i ribelli accusano la famiglia reale saudita di essere divenuta schiava degli infedeli americani e auspicano un ritorno a un islam rigido e inflessibile. Un blitz pone fine all’azione, in un bagno di sangue.

La famiglia Saud non era mai stata così vicina alla fine. Da quel momento, si impegna a finanziare e sostenere – con soldi, armi, e una rete di scuole – la dottrina oscurantista in giro per il mondo, ma lontano da casa.

Un equilibro che si rompe nel 2001. L’allora ambasciatore saudita a Washington Bandar bin Sultan si trova una bomba tra le mani: quasi tutti gli attentatori suicidi dell’11 settembre sono sauditi. Il mostro è cresciuto, è diventato sempre più forte. Al-Qaeda è sfuggita di mano. Accadrà ancora, nel 2011, quando lo stesso Bandar è capo dell’intelligence. Bisogna mettere le mani sulle rivolte arabe, soffocare gli sciiti, dopo che il rovesciamento di Saddam nel 2003 ha consegnato l’Iraq agli infedeli.

Pur di rovesciare il regime di Assad in Siria, nel 2013, Bandar incontra Putin: l’offerta è nello stile delle trattative beduine, come è sempre stato, anche dopo tutti i miliardi del petrolio. La testa di Assad, in cambio della pax caucasica, tra i gruppi integralisti della federazione russa. Una sostanziale ammissione del coinvolgimento dei sauditi nel fomentare l’idea del jihadismo globale.

Non funziona, Bandar viene destituito. Ma è con l’ascesa di Obama alla Casa Bianca che i rapporti si incrinano. I motivi sono tanti: la decisione della amministrazione Obama di annullare l’attacco degli Stati Uniti contro la Siria, quella di coinvolgere l’Iran in negoziati diplomatici diretti, la riduzione della dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio saudita, risultato dall’aumento della produzione statunitense di idrocarburi con il fracking nelle riserve di scisto negli Stati Uniti. E altro ancora.

Senza più la garanzia di una ‘protezione speciale’, con gli sciiti che governano in Iraq, con l’Iran che riprende un posto centrale nella geopolitica mondiale, a Riad serpeggia il nervosismo. Che dopo anni porta a un impegno militare diretto, in Yemen e in Bahrein, ma anche a uno indiretto, a sostegno di Daesh e di quella ‘rivincita sunnita’ che ha di fatto cancellato i confini storici della Siria e dell’Iraq e che rischia di dilagare nella regione.

Per capire cosa accade a Parigi e Bruxelles, quindi, sarebbe più utile far chiarezza a Riad che bombardare Raqqa. Ma i legami economici delle asfittiche economie europee con le petro monarchie del Golfo, che si appoggiano all’Arabia Saudita per sopravvivere, è ancora molto forte. Almeno come il pericolo che corriamo tutti quanti, musulmani per primi, rispetto a una filosofia della morte che nutrita per anni oggi è sempre più radicata e forte.

TAG: arabia saudita, siria, terrorismo
CAT: Questione islamica, Terrorismo

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