“Dimmi cosa pensi e ti dirò se compro”: il brand activism arriva anche in Italia

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26 Settembre 2019

Cosa pensano “le aziende” sulle questioni di genere, sulla lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico, sul rispetto dei diritti dei lavoratori? Hanno posizioni esplicite sulla società contemporanea in cui operano e, magari, prosperano?

Non sono domande irrilevanti, per le aziende stesse. Non è “solo” una questione di etica dell’impresa e di sua responsabilità sociale, che già basterebbe. A renderla ineludibile, per le imprese, sono ormai gli stessi consumatori. È quanto dimostra, ad esempio, il rapporto di ricerca di Accenture “Strategy From Me to We”: The Rise of the Purpose-Led Brand, realizzato lo scorso dicembre e basato su un sondaggio su un campione di 30.000 persone in 35 paesi. Quasi due terzi (63%) dei consumatori preferiscono premiare le aziende che sono disposte a prendere posizione sulle questioni attuali.

Ad accelerare la dinamica, ovviamente, sono stati i Social Media che, in questi anni, hanno permesso l’instaurarsi di una relazione diretta tra “clienti” e piccoli e grandi marchi. Le opportunità di business, in questa dimensione di relazione ormai consolidata, si accompagnano naturalmente a una richiesta di trasparenza sui valori cui l’azienda crede e investe. Una richiesta che a volte si traduce in discussione e confronto anche acceso, ma spesso si trasforma in un vero e proprio campo minato. Un messaggio “sbagliato”, anche solo ambiguo, può produrre un danno di immagine e di mercato che lascia segni per mesi o anni. È proprio per questo che le aziende, sempre più spesso, oggi scelgono di esporsi, prendendo posizione sui temi sociali. Accettando da un lato il rischio di perdere una parte di clienti, e di fatto obbligandosi a dimostrare coerenza nei propri comportamenti, ma dall’altro investendo sui consumatori “sensibili” ed esigenti, che sono sempre di più.

In questo quadro si inserisce quello che oggi viene definito “brand activism”. 

Un esempio eclatante, e che ha fatto il giro del mondo, è rappresentato dalla campagna lanciata da Nike l’anno scorso per celebrare il trentesimo anniversario del proprio claim “Just do it”. Il volto della campagna era Colin Kaepernick, non un testimonial qualunque, ma un ex quaterback della National Football League, passato alla storia per essersi inginocchiato durante l’inno nazionale americano che precede l’inizio delle partite di football in segno di protesta contro la discriminazione verso le minoranze etniche negli Stati Uniti. Un gesto che non era affatto piaciuto a Donald Trump, tanto che il Presidente degli Stati Uniti aveva chiesto esplicitamente ai proprietari della NFL di lasciare in panchina tutti quei giocatori che non avessero rispettato l’inno. Kaepernick è stato così emarginato dalla NFL e il suo volto, però, è finito in primo piano su molti  giornali associato alla frase: “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto quanto”.

Anche un altro marchio mondiale, come Gillette, ha scritto una pagina importante di brand activism, presentando una campagna di sensibilizzazione sui comportamenti degli uomini nei confronti delle donne. Partendo da “Il meglio di un uomo”, lo slogan che da anni contraddistingue il marchio, l’azienda ha promosso una campagna su cosa davvero rende un uomo migliore, stigmatizzando ogni comportamento violento, molesto e maschilista e creando un fondo per supportare gli uomini a dare davvero il meglio di loro stessi. Le reazioni sono state diverse: alcune positive, altre meno. Ovviamente, facendo una scelta come questa, un grande marchio non solo mette in conto di poter suscitare reazione negative in parti della società, ma in qualche modo conta di potersene “vantare”, mostrando a tutti che non ha paura di perdere clienti che non ritengono fondamentali certi principi.

In Italia, naturalmente, la tendenza sta arrivando con un po’ di ritardo, e per ora si contano più spesso le “gaffe” che non le campagne di attivismo, da parte delle imprese. Tuttavia, qualcosa si muove, anche se, per ora, riguarda esempi di dimensione minore e spesso presenta connessioni dirette col “core business” dell’azienda. È il caso dell’azione promossa dal Gruppo Cap, che gestisce il servizio idrico integrato in circa 200 comuni della Città metropolitana di Milano, che ha coinvolto la Fondazione Pubblicità Progresso e gli studenti dell’università Iulm, per spiegare ai cittadini che l’acqua del rubinetto è buona e non va sprecata. Tutto è nato dalla strategia di sostenibilità realizzata dal Gruppo con Orizzonte 2033. Gli italiani purtroppo sono al secondo posto al mondo (dopo il Messico) per consumo di acqua in bottiglia, cioè di acqua in plastica, con una media di 206 litri pro capite nel 2017, Cap vuole fare in modo che, nel 2033, il 70 per cento degli abitanti nell’area metropolitana di Milano beva con fiducia l’acqua di rubinetto, oltre che smettere di sprecarla. Per questo è stata avviata una partnership con la Fondazione Pubblicità Progresso per la campagna #CiRiesco, concepita per diffondere una cultura basata su comportamenti virtuosi indispensabili per preservare le risorse del pianeta, coinvolgendo nel progetto anche alcuni studenti del corso di Comunicazione sociale dell’l’università Iulm di Milano, che hanno ideato, sulla base di un brief ricevuto, alcune campagne colldedicate alla sensibilizzazione dei consumatori sull’uso sconsiderato dell’acqua ma anche della plastica, sull’inquinamento marino, attuale e urgente per la salvezza nostra e del pianeta.

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TAG: brand activism, Cap holding, Colin Kaepernick, gilette, nike
CAT: acqua, Grandi imprese

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