Diritti
Una mappa per la pena: perché il carcere può e deve riabilitare un detenuto
Una persona che commette un reato, sia essa un uomo o una donna, deve pagare un tributo alla società? E in che misura? Ha senso che la pena consista nella sottrazione della sua libertà? È giusto che un detenuto sia privato di qualunque rapporto affettivo e anche di una libera e adulta sessualità?
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Insomma, la pena deve essere soltanto afflittiva o retributiva?
Il carcere deve costituire una vendetta da parte dello Stato rispetto al detenuto oppure deve diventare un luogo in cui consentire a chi ha commesso dei reati di maturare una consapevolezza rispetto ai gesti commessi e dare l’avvio ad un cambio della propria personalità e della propria vita?
È possibile pensare al carcere come ad un luogo in cui studiare, riflettere, pensare, e acquisire una nuova consapevolezza?
C’è un uomo in Italia che questo cambiamento l’ha reso possibile. Si chiama Angelo Juri Aparo. Psicoterapeuta, lavora nelle carceri da 42 anni. Venticinque anni fa, ha fondato il gruppo della trasgressione ed ha cominciato un lavoro prezioso. Quello di portare uomini al 41-bis, uomini di mafia, di camorra, di ndrangheta, a maturare la consapevolezza di ciò che hanno fatto, della scia di dolore provocata e di quella indossata per una lunga stagione della loro vita. Li ha portati a guardare in faccia il loro dolore, la loro fragilità, la loro onnipotenza. Non ha fatto sconti, non ha lavorato sul pentimento fine a se stesso. Ha lavorato sulla coscienza, sulla maturità, sulla necessità di comprendere il senso e la portata di un’esistenza vissuta nel livore, nell’odio, nella rabbia. È entrato nella carne viva di quella rabbia, ha accompagnato gli uomini di mafia a capire cosa della mafia avevano comprato, sposato, acquisito. Cosa la mafia ha venduto loro e le ragioni per cui loro hanno comprato, decidendo di indossare per sempre una maschera.
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E oggi questo cerchio si è chiuso. A ridosso del 23 Maggio appena trascorso quegli uomini di mafia sono entrati nelle istituzioni, al Palazzo del Senato, per raccontare in che modo ognuno di loro ha compreso che la mafia è una montagna di merda, e per questo ha deciso di affrancarsi dalla criminalità organizzata, senza mai dimenticare che il dolore arrecato non si può cancellare. Chi ha tolto la vita ad altri uomini, come raccontano Antonio Tango, Marcello Cicconi, Pasquale Fraietta, Rosario Casciana, Adriano Sannino, non potrà mai dirsi completamente libero. Può però riscattare i propri errori cambiando la vita propria e dei propri familiari.
Il Prof. Aparo è riuscito a fare anche qualcosa di più. Ha unito agli ex mafiosi le vittime della mafia. Li ha fatti incontrare, li ha fatti confrontare. Ciascuno ha portato il proprio dolore e la propria solitudine. E in questa immensa marea ciascuno ha riportato a coscienza il senso della vita. Oggi a Roma c’era Paolo Setti Carraro, fratello di Emanuela, moglie del Generale Carlo Alberto Della Chiesa, entrambi assassinati da Cosa Nostra. Ed è lui che ha spiegato che, dopo aver frequentato il gruppo della trasgressione per 6 anni, ha compreso che “nella vita si può cambiare” rivolgendosi verso quegli uomini che sono appartenuti alle organizzazioni che hanno ucciso sua sorella.
Questo documentario racconta un processo, fa sentire le voci degli ex mafiosi, e delle loro vittime, che insieme hanno cominciato un cammino comune, di cambiamento. Letteralmente: un miracolo. Angelo Juri Aparo dichiara: “Ho 70 anni e cerco un erede”, qualcuno che prosegua questo cammino. Lo seguono 60 persone, tra loro giovani psicologi che lui ha allevato in qudsti anni, portandoli in carcere a toccare con mano il dolore.
Una discesa negli inferi, che oggi scollina verso il futuro. Fatto della coscienza di vita.
Giovanni Falcone è qui, oggi.
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