Industria

Nel farmaceutico l’Italia fa davvero sistema

1 Luglio 2020

Secondo i dati Farmindustria, l’Associazione delle imprese del farmaco, il valore della produzione farmaceutica in Italia è stato pari a 34 miliardi di euro nel 2019, in crescita rispetto al 2018, solamente grazie all’export (+26%). Stabili investimenti e occupazione, per un totale di 66.500 addetti. Stando ai dati Istat, nell’industria farmaceutica l’occupazione è cresciuta del 10% in cinque anni. Non c’è dubbio che quello farmaceutico, in Italia, sia un settore in buona salute, capace anche di attirare importanti investimenti dall’estero. Merito di risorse umane altamente preparate, di impianti a elevata produttività e di sinergie consolidate con i grandi player del manifatturiero italiano, in particolare della meccanica. E naturalmente, il settore farmaceutico è anche impegnato su più fronti nella lotta al Covid-19. Se da una parte continua la ricerca di vaccini e terapie per neutralizzare il coronavirus che a oggi ha causato più di 34mila decessi in Italia e oltre 460mila a livello globale, dall’altra è stato fondamentale assicurare la continuità dei trattamenti farmacologici anche durante la fase del lockdown, sia agli affetti da Covid-19 che in generale. Gli Stati Generali ne ha parlato con Carlo Riccini, direttore del Centro studi Farmindustria.

Carlo Riccini

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Il farmaceutico gioca un ruolo chiave nel contrasto al Covid-19. Qual è la situazione per la vostra industria?

Il settore farmaceutico in Italia è impegnato nell’emergenza Covid-19 molto attivamente, e non potrebbe essere altrimenti. Già a metà febbraio alcune task force si sono messe al lavoro per assicurare la continuità del lavoro delle aziende, quindi ricerca, produzione, distribuzione, accesso ai farmaci, organizzazione del personale. Tutti gli addetti del settore hanno dato prova di grande efficienza e dedizione. Da questo punto di vista credo che i risultati siano stati molto importanti perché è stata assicurata la disponibilità dei farmaci per tutti i pazienti, una tutela fondamentale. La normativa ha riconosciuto la farmaceutica come un settore strategico e le aziende si sono organizzate per operare in massima sicurezza. Grazie a questi fattori non c’è stata la chiusura di nessun impianto, né si è verificata alcuna crisi legata a problemi di salute negli stabilimenti. Pur con molte difficoltà e complessità, la continuità operativa delle aziende è stata garantita in tutti i territori, compresa la Lombardia, dove ha sede un centinaio di aziende farmaceutiche. Su questo è stata fondamentale la collaborazione tra l’Agenzia del Farmaco e le imprese, che ha consentito di individuare tempestivamente soluzioni, e in particolare di contrastare possibili carenze di prodotti e risolverle il più rapidamente possibile, evitando che si trasformassero in mancanze. È stato fondamentale il rapporto di partnership con tutte le istituzioni e gli stakeholder, a partire da medici e sindacati.

Neanche la ricerca si è fermata.

Certo, la ricerca di un vaccino è una grande sfida, tuttora in corso. Come quella per tutti i trattamenti per prevenire e combattere il Covid-19. Attualmente c’è un gruppo importante di aziende impegnate in progetti di ricerca su possibili vaccini, farmaci, e anche su progetti di impiego dell’Intelligenza Artificiale per selezionare le molecole più adatte a essere usate contro il Covid-19. Certo, la strada è ancora complessa, però è avviata, e le imprese hanno dimostrato di poter mettere in campo molti progetti importanti in pochissimo tempo. Alcune aziende hanno poi modificato le proprie linee produttive per rispondere alla domanda crescente di prodotti specifici, in primis di prodotti disinfettanti. E ci sono riuscite in tempi molto rapidi grazie all’ottima collaborazione con Aifa sul lato delle autorizzazioni. Inoltre da parte delle aziende ci sono state donazioni finanziarie e di farmaci, strumentazioni e presidi, ad esempio respiratori, guanti, gel disinfettanti, programmi di telemedicina per assistenza da remoto e collaborazioni con ospedali per screening, per un valore totale di circa 41 milioni di euro. Un dato, questo, che non comprende i farmaci forniti gratuitamente alle strutture per gli studi clinici.

Tendenzialmente il nostro è un paese poco attrattivo per gli FDI, ma molte aziende farmaceutiche in Italia sono invece a capitale estero. Questo settore sembrerebbe avere un’alta capacità di attrarre investimenti, lei conferma?

Bisogna premettere che c’è sempre tantissimo da fare, perché nella farmaceutica la competizione è globale e non si ferma mai, e sono fondamentali condizioni di contesto del sistema paese, per il quale Farmindustria chiede azioni di una nuova governance del settore. Però è senz’altro vero che la farmaceutica in Italia vede una presenza molto significativa di imprese a capitale estero, e che è tra i settori con il maggior contributo per investimenti ed export da parte di queste imprese. Alcune hanno sede in Italia da decenni, in alcuni casi persino da oltre un secolo, e credo che questo sia un dato eloquente del legame col territorio e del valore generato.

L’Italia è prima per investimenti esteri di imprese americane e tedesche, seconda per investimenti di aziende svizzere, francesi e giapponesi, e di nuovo prima per investimenti esteri in ricerca di aziende britanniche, per le quali siamo un hub di vaccini. È una posizione di altissimo rilievo a livello globale. Stando ai manager di queste aziende, la differenza la fanno le persone: risorse umane molto preparate, flessibili e di altissima qualità. Anche la produttività degli impianti è di alto livello, talvolta superiore a quella degli impianti in Germania, proprio perché nel nostro paese ci sono risorse umane molto preparate, e anche molto attaccate alle loro aziende. Questo è un aspetto che spesso colpisce i manager stranieri che vengono in Italia.

E poi bisogna tenere conto che l’Italia è un mercato importante, al quale le imprese prestano grande attenzione. Chiaramente ci sono anche delle difficoltà che andrebbero superate per accrescere ulteriormente l’attrattività, ad esempio in termini di governance della spesa, di utilizzo di tutte le risorse a disposizione per la farmaceutica, di accesso ai prodotti.

Come è strutturata la farmaceutica in Italia?

Il settore è costituito per il 60% da aziende multinazionali e per il 40% da imprese a capitale nazionale. Di norma questo settore vede un’ampia presenza di imprese multinazionali, quindi non è strano che ciò avvenga anche in Italia. Ma il contributo delle imprese a capitale nazionale è importantissimo, molto più che in altri Paesi. Ci sono tante aziende fondamentali per lo sviluppo del settore, con investimenti, export, occupazione, che in questi anni stanno investendo tantissimo, e che crescono con un modello di internazionalizzazione positivo. Quindi non in ottica di delocalizzazione, ma di presidio dei mercati internazionali per rafforzare le attività e gli investimenti in Italia, che resta solidamente la loro base operativa. E le azioni di questi mesi lo confermano in pieno.

L’Italia è un paese a profonda vocazione manifatturiera. In che modo il manifatturiero italiano interagisce e può interagire col settore farmaceutico?

Se la produttività degli impianti italiani è così alta è anche grazie a un indotto di altissimo profilo, e alla capacità di lavorare in un’ottica di filiera. L’Italia è un paese di player manifatturieri straordinari, di rilievo globale, ad esempio nella meccanica, uno dei grandi settori del made in Italy, oppure negli imballaggi. Per molti comparti industriali questo è importantissimo. E fa sì che la produttività del farmaceutico sia molto alta proprio perché il settore può crescere insieme a dei fornitori in grado di rispondere alle sue necessità in maniera puntuale e flessibile.

Le imprese dell’indotto insomma, con cui il settore farmaceutico ha dei legami storici, danno una forte spinta alla competitività generale del settore, è un rapporto che genera valore sia per noi che per i nostri fornitori. Non a caso negli ultimi dieci anni la farmaceutica italiana ha registrato l’incremento di esportazioni più alto tra i big europei (+168% rispetto al +86% della media UE).

Eccellenza delle risorse umane e della filiera, investimenti e attenzione per l’ambiente, sono alla base dell’alta qualità della produzione realizzata in Italia, che è riconosciuta a livello internazionale.

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Qual è il ruolo del biotech?

Il biotech è una parte fondamentale dell’industria farmaceutica: un farmaco biotech è prima di tutto un farmaco. Ed è una delle parti più innovative del settore. Sono prodotti nuovi, capaci di rispondere in modo più mirato alla domanda di salute dei singoli pazienti. Sono sempre di più le patologie alle quali i farmaci biotech forniscono soluzioni terapeutiche importantissime. Ad esempio in oncologia o nelle malattie rare, ma anche in tante altre aree terapeutiche. Per non parlare delle terapie avanzate, un settore in grande sviluppo, come testimoniato dal crescente numero di studi clinici in tutto il mondo: oltre 1000, di cui un terzo in Europa. Sono 40 i prodotti di terapie avanzate disponibili oggi in tutto il mondo, di cui 10 in Europa.

Qual è il contributo delle PMI del settore?

Va detto che la scala delle aziende in questo settore è un po’ particolare. Le imprese considerate medie nella farmaceutica sarebbero definite grandi in altri ambiti. Ma questo è vero in tutti i paesi, e se guardiamo allo scenario internazionale l’Italia è prima in Europa per numero di PMI farmaceutiche, sia per addetti che per produzione. Sono aziende spesso familiari, che associano la solidità di questo tipo di imprese alla capacità di intraprendere strategie innovative. Strategie che magari non le portano a realizzare una ricerca di “frontiera”, ma con le quali fanno tanta innovazione di “prossimità”, aumentando il valore dei prodotti, creando sviluppo sul territorio e fornendo soluzioni terapeutiche molto importanti.

Sembra che il settore farmaceutico italiano sia molto articolato.

Sì, e proprio il fatto di avere tanti “motori” diversi è stata la sua forza. Ci sono le multinazionali; ci sono le aziende italiane, grandi e medie; e poi tante PMI. A quella dimensionale si affiancano altre specializzazioni: nei farmaci, nei vaccini, nei plasmaderivati, nella produzione in contract and development manufacturing. Avere diversi motori fa sì che quando tutti funzionano a pieno regime l’intero settore possa avanzare più rapidamente, e che anche quando uno magari entra in una fase di rallentamento fisiologico, perché i programmi di investimento non possono essere gli stessi ogni anno, il settore mostri una maggiore resilienza. Questa è una peculiarità importante dell’industria farmaceutica italiana, non così comune negli altri paesi europei.

C’è una carenza di talenti “made in Italy” per il settore farmaceutico italiano?

Non direi. La qualità delle risorse umane in Italia è forse il fattore principale della nostra capacità di attirare investimenti dall’estero. I talenti non ci mancano e sono figli di una grande tradizione industriale e scientifica del nostro Paese. Senz’altro è necessario un adattamento alle nuove tecnologie attraverso nuovi percorsi formativi e professionali. Nella farmaceutica le tecnologie progrediscono in modo molto multidisciplinare, quindi c’è bisogno di nuovi corsi nei licei, negli istituti tecnici e ovviamente nelle università.

Da parte nostra, sia a livello di Farmindustria che delle aziende associate, c’è già da alcuni anni un impegno su programmi di alternanza scuola-lavoro di altissima qualità. Programmi tra l’altro molto apprezzati dagli studenti, che seguono corsi formativi anche con noi dell’associazione, si recano negli stabilimenti e sono molto seguiti in azienda. E poi ci sono diversi programmi, sia a livello di formazione universitaria che di master, proprio per andare incontro alle nuove esigenze del mercato del lavoro.

In che modo il settore farmaceutico italiano può lavorare su progetti di open innovation e creare delle sinergie con le startup in quanto serbatoio di talenti e nuove idee?

L’open innovation è una grande opportunità per il settore farmaceutico, nonché per tutto l’ecosistema della ricerca in Italia. Pensiamo agli studi clinici, per esempio, ovvero alla parte di ricerca necessaria a testare la sicurezza e l’efficacia di un farmaco prima di poter renderlo accessibile a tutti i pazienti. Questa fase della ricerca rappresenta una tipicità della farmaceutica, e adotta in pieno il modello dell’open innovation, perché viene svolta in rete con delle strutture ospedaliere. È fatta anche in rete tra aziende e centri di ricerca che possono sviluppare o analizzare una parte particolare di questo processo. Ed è una fase scientificamente importantissima per la medicina personalizzata, che si concentra sulle specificità delle singole persone. Inoltre diverse aziende hanno creato piattaforme di open innovation per cercare startup che le possano accompagnare nel processo di trasformazione digitale, nella raccolta dei dati clinici e nel telemonitoraggio del paziente, passando per l’analisi e l’interpretazione dei risultati sperimentali e durante le terapie.

Avete dei programmi specifici in questo senso?

Come Farmindustria insieme alla SIF (Società italiana di farmacologia) abbiamo un progetto, Innovation Flow, volto a favorire l’interazione tra le idee dei ricercatori e le aziende che cercano questo tipo di idee, e a far dialogare questi due mondi. Inoltre, da un paio d’anni ormai, abbiamo anche affrontato il tema della trasformazione digitale e stiamo svolgendo degli incontri proprio in ottica di open innovation, ad esempio presso policlinici che stanno sviluppando progetti di intelligenza artificiale o robotica.

A mio avviso le scienze della vita stanno vivendo una fase molto interessante, non solo dal punto di vista clinico ma anche industriale. Tutto il processo per arrivare ai nuovi prodotti e lo stesso percorso terapeutico sta cambiando molto e ci sono tanti soggetti interessati e aperti al confronto: università, ospedali, startup, politecnici, centri di ricerca, ecc. D’altra parte la farmaceutica fa già tantissima ricerca, e ne farà sempre di più. Basti pensare che nei prossimi cinque anni le imprese farmaceutiche a livello globale hanno in programma di investire mille miliardi di dollari, e che gran parte di questi investimenti saranno legati proprio all’open innovation. Se l’Italia saprà attirarne una parte sarà un risultato estremamente importante e positivo.

 

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Foto in copertina: Pixabay

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