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Geopolitica

La pace che verrà, il risultato di un equilibrio tra forze e poteri

12 Maggio 2025

Nell’arco di 18 giorni, ancora nel Tempo di Pasqua, la Chiesa Cattolica perde e ritrova la sua guida. Leone XIV, il primo Papa statunitense, Robert Francis Prevost, si affaccia dal balcone di San Pietro con l’esortazione a una pace disarmata e disarmante.

Le guerre continuano, ma da alcuni mesi sono tornate a muoversi con maggiore attivismo le cancellerie, le diplomazie, come se il sovrano, il politico, cercasse – tra nuove arroganze autocratiche e antiche scuole – di riprendere un ruolo, un’autonomia d’azione che sembrava perduta. Sarà stata la contemporaneità con l’elezione del nuovo Papa, ma la stessa oscena parata militarista di Putin del 9 maggio, che ha stravolto e umiliato il senso del ricordo della fine del secondo conflitto mondiale, è apparsa sottotono.

Nessuno può seriamente fare previsioni: si susseguono in rapida successione annunci di cambi di passo, colloqui e ipotesi di tregua che si rivelano poi difficili alla prova dei fatti, in un conflitto che, per la sua ampiezza, si inserisce in una geometria più vasta e frammentata, dove ogni pausa, ogni proposta, ogni ipotesi di tregua viene letta non solo per ciò che afferma, ma anche per ciò che omette, implica o sottintende.

Ma se l’Ucraina sarà al tavolo delle trattative, rivendicando la difesa e il controllo dell’80% del suo territorio, invaso dalla seconda potenza nucleare del pianeta e bombardato da tre anni, il merito andrà ascritto alla caparbia resistenza e al sacrificio del suo popolo, del suo governo e del suo premier Zelenskyj, nonché alla determinazione confermata di molti Paesi europei e degli stessi Stati Uniti, pur riluttanti, a sostenere il Paese, nonostante l’incertezza e i dubbi delle rispettive opinioni pubbliche.

La storia ha chiarito che, senza analisi, proposte concrete di politiche e soluzioni parziali – anche militari e di difesa – per intervenire qui e ora nei conflitti in corso, resteremmo chiusi nella comfort zone di appelli morali che servono, sostanzialmente, a rassicurare i nostri mondi di riferimento e un’opinione pubblica giustamente impaurita.

I protagonisti sono tornati a essere gli Stati, che si muovono per interessi leciti e meno leciti, dichiarati e non dichiarati, per sfere d’influenza, per difesa del proprio territorio e della propria comunità, per esercitare un’egemonia, una sovranità. Poteri sovranazionali, spesso interconnessi, che – sulla base di negoziazioni, dimostrazioni e uso della forza economica e militare – attuano decisioni fondative e strategiche.

Abbiamo assistito impotenti, in Medio Oriente, a Gaza, all’attuarsi di un micidiale dispositivo vittimario, dove carnefici sono diventati vittime e vittime carnefici, giustificando la propria violenza come risposta alla violenza che l’altro ha inflitto prima, in una spirale infinita e autodistruttiva.

In assenza di una politica di giustizia internazionale, di un soggetto istituzionale terzo, riconosciuto da tutti, che assuma su di sé il monopolio e l’uso della forza, di reali forze di interposizione che possano intervenire tra le parti, è riemersa la legge del caos e del più forte.

Paradossalmente, è stata proprio l’assenza di un equilibrio, di un potente Stato egemone – la stessa crisi dell’impero americano – a consentire anche ad altre potenze e ad altri attori di muoversi liberamente, sentendosi autorizzati a intervenire con la forza là dove prima si sentivano in qualche modo frenati. Prova ne è il riaprirsi del conflitto armato tra India e Pakistan, che dura dalla nascita delle due nazioni indipendenti.

A tutto ciò non possiamo più reagire persistendo in un approccio fondato su meta-categorie prepolitiche: bene e male, guerra e pace, giustizia e ingiustizia, violenza e non violenza, rimanendo su un piano etico-astratto che viaggia parallelo alla realtà, alla dimensione della politica concreta, senza mai incrociarla.

Siamo tra soggetti che si muovono non secondo principi di giustizia, uguaglianza e ampliamento dei diritti, ma per la difesa, la perpetuazione, l’espansione dei propri interessi. Il nodo oggi è rappresentato dalla crisi delle norme sull’uso della forza come mezzo ordinario di risoluzione delle controversie tra Stati, una crisi la cui soluzione diventa politicamente e giuridicamente cruciale. I conflitti che stiamo attraversando sono il culmine di un processo di rilegittimazione dell’uso della forza e della guerra, da sempre tragica manifestazione estroflessa dell’esercizio del potere.

La storia ci ha riportato, riconsegnato agli arcani imperi, alla contrapposizione amico/nemico, come uno degli elementi costitutivi dello Stato, che presuppone e preesiste alla politica. “Sovrano è chi decide e governa lo stato d’eccezione”. E davanti alla guerra, stato d’eccezione per antonomasia, il demone della politica internazionale è tornato a essere la lotta per il potere tra Stati, la conquista di egemonie rivendicate o perdute, il controllo di spazi sovrani.

Ricordiamoci che solo dopo le guerre di religione in Europa nel XVII secolo, solo un ordinamento dello spazio diverso – con la pace di Vestfalia – portò alla nascita e al consolidamento degli Stati nazionali, che assunsero su di sé il monopolio dell’uso della forza, la separazione tra Stato e religioni, il potere assoluto del sovrano. L’ultimo ordine pacificato contemporaneo lo abbiamo vissuto noi stessi, garantito dalla deterrenza nucleare, esito finale della guerra civile europea sfociata in due guerre mondiali costate tra i 90 e i 100 milioni di morti.

Stiamo vivendo sotto i nostri occhi l’accelerazione di uno scontro più ampio e di un riposizionamento dei sistemi di alleanze, di vecchi poteri e di nuove potenze, emerse dal crollo dell’ordine della Guerra Fredda: potenze costituenti, che tuttavia non riescono ancora a diventare poteri costituiti, perché incapaci di dominarne i fattori.

Quel che ha reso sin qui vuote e inefficaci le invocazioni alla pace è stata la mancata risposta a una domanda: in conflitti di tali proporzioni, chi è – chi sono – il soggetto politico della mediazione? Chi apre le mappe e traccia possibili confini segnati nel suolo dal sangue? Chi ha l’autorità e l’autorevolezza per proporre interessi e garanzie di sicurezza che rendano preferibile la pace alla guerra?

Il sostegno europeo – a guida franco-inglese e soprattutto del Presidente Macron – da una parte, il sovversivismo autoritario, autarchico e proprietario di Trump dall’altra, sembrano paradossalmente accelerare la chiusura di un possibile tavolo negoziale sulla guerra in Ucraina.

Se la pace attraverso l’espansione dell’economia globalizzata è stata una grande illusione, e quella degli imperi e dei suprematismi un inferno, allora rimarrà solo quella data dall’equilibrio tra forze e poteri, garantendo interessi economici e politici, affiancati e preceduti da sfere di influenza militari e di sicurezza.

Se vogliamo rilanciare la pratica del diritto internazionale affermatasi gradualmente dopo i conflitti mondiali, modelli decisionali più evoluti e condivisi, e mediazioni realmente pacificatrici per consenso, dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che questo è il contesto e il terreno su cui saremo costretti a confrontarci: disposti a risultati insoddisfacenti, a impunità, ad accettare tregue e armistizi parziali, a una pace che potrebbe essere solo quella possibile.

Le stesse democrazie politiche potrebbero andare incontro a un profondo processo trasformativo di fronte a un nuovo e inedito rapporto tra masse e politica, veicolato dalla società digitale, dove i tradizionali meccanismi di salvaguardia e di libertà potrebbero svanire di fronte all’agglutinamento del potere in nuovi modelli autoritari.

In questo passaggio di fase, l’Europa dovrà imparare a proteggere se stessa dalle sfide che l’attendono. Basti pensare ai recenti attacchi ibridi contro Stati sovrani, avvenuti in occasione delle elezioni politiche, e ai continui tentativi di influenzarne gli esiti attraverso manipolazioni informative.

Occorre quindi prendere consapevolezza della possibile ostilità di altri Stati e nazioni, non perché questi siano espressione del Male Assoluto o vogliano la nostra distruzione, ma perché portatori di interessi e desideri di supremazia politica ed egemonia divergente. Per questo dovremo fare della difesa e del contenimento della violenza una parte fondante della politica estera.

Noi siamo dentro questa storia. Dal fallimento nella gestione della guerra in Jugoslavia negli anni ’90 al congelamento del Trattato, l’Unione Europea è rimasta troppo a lungo, nella sua essenza, un soggetto politico a trazione intergovernativa, dove sulle questioni fondamentali e strategiche hanno sin qui deciso i governi nazionali, costruendo poi un consenso unanime. Un’era geologica fa, incapace di affrontare e gestire processi attuali, imprevedibili e rapidi nel manifestarsi e consolidarsi.

Oggi, spinti dalla crisi delle relazioni atlantiche e dalla guerra, si apre la possibilità di un salto epocale e una vera assunzione di responsabilità politica finora evitata. Un rinnovato accordo sull’asse Parigi-Londra-Berlino, esteso a Est e al Nord scandinavo, pare andare per la prima volta verso il traguardo della creazione della struttura politica dell’Unione, a partire dall’esigenza di una politica estera, di difesa e di sicurezza comune.

Ma servirà ben altro per convincere i popoli europei, vissuti in pace da 80 anni, del valore di un rinnovato patriottismo europeo. Servirà ridare un’anima, una visione e una speranza a un progetto politico e sociale pacificante e aggregante, un’idea di futuro senza la quale, in caso di crisi sistemica, nessuno oggi sarebbe pronto a sacrificarsi per le democrazie affaticate dei propri Paesi, né per i palazzi dell’Unione a Bruxelles.

Occorre parallelamente affrontare gli altri fronti di guerra, a cominciare dalla carneficina mediorientale, riaffermando i principi del diritto internazionale nella soluzione della questione palestinese, che – soprattutto agli occhi del Sud globale – è apparsa come lo specchio dell’applicazione selettiva della giustizia internazionale, a vantaggio esclusivo di Israele.

Non è impensabile, quindi, ipotizzare una tormentata, lenta, faticosa ma graduale ricomposizione di un ordine, purché emerga un interesse comune e un punto di convergenza per rispondere ai molteplici rischi planetari, agli immani divari di ricchezza, alla povertà strutturale. Fino a quel momento, sarà un continuo misurarsi con i rapporti di forza, sul terreno.

Non saranno il Bene e il Male, il Giusto e l’Ingiusto, ma le mutevoli configurazioni della storia nei rapporti di forza geopolitici e geoeconomici, negli assetti statuali, politici e sociali, a determinare le dinamiche, le regressioni o le pacificazioni, le involuzioni o i progressi della nostra storia futura.

 

Mauro Montalbetti

http://osservatoriointernazionale.com

 

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