A Genova spaccata in due il baricentro del Teatro Akropolis
A Genova, città martoriata d’Italia, la radicalità é d’obbligo. Fatta di scelte trasparenti e impegno come il filo resiliente che ha legato assieme il programma della nona edizione di “Testimonianze, ricerca e azioni” festival allestito dal Teatro Akropolis (dall’8 al 18 novembre), una compagnia che vive ai margini della metropoli, ma con la quale il confronto è regolato da scelte originali e controcorrente. Quasi unica in Italia, sperimenta senza spettacolarità glamour una ricerca sulle fonti di ispirazione del teatro stesso. Scelta difficile ma utile, soprattutto in tempi di crisi, a riscoprirne le origini e capire le differenti identità. Su queste linee il palinsesto della rassegna è consistito in un focus sulla danza butoh, l’analisi del rapporto tra circo e teatro, spettacoli, musica e danze popolari come pizzica e taranta. Per Clemente Tafuri e David Beronio fondatori dell’ensemble genovese occorre “tenere i piedi ben piantati per terra sapendo che l’energia viene da lì, dove la troviamo ogni volta che ne abbiamo bisogno”. E il Teatro Akropolis “travolto come tutta la città da una trasformazione traumatica” ha trovato “il suo baricentro nella coerenza di una ricerca decennale”, una scelta che lo scorso anno gli è valso il Premio speciale Ubu per l’originale attività editoriale.
Radicalità quindi, come scelta necessaria per sopravvivere, aggrappati alla speranza di vedere la luce fuori dal tunnel di una crisi senza fine che ha tolto certezze per il futuro e gettato sconforto, non solo tra i ceti più indifesi. Lontana dai fasti demografici di cinquanta anni fa quando la popolazione superava abbondantemente gli 800 mila abitanti, oggi, Genova, nonostante gli immigrati, è precipitata giù di oltre duecento mila unità. Nel suo Dna porta incise storie di riscatto e resistenza e le sue mura sono punteggiate di lapidi dedicate a chi lottò contro il fascismo: col tempo si sono mimetizzate diventando tutt’uno con il grigiore dei palazzi. E da qualche mese il suo cuore ha rallentato il battito per l’ultima tragedia che l’ha colpita.
Dall’alto di quella che un tempo si chiamava Columnata, oggi Coronata, una collina raggiungibile per una via ripida e tortuosa, si può vedere in basso il tratto finale della Val Polcevera, laddove il 14 agosto alle 11,36 del mattino è crollato un pezzo del Ponte Morandi, inaugurato nel 1967. Duecento metri di viadotto, venendo giù, hanno provocato la morte di oltre quaranta persone, diversi feriti e lo sfollamento delle famiglie che vivevano nei palazzi sotto il ponte. E spaccato in due Genova. Da questo punto di osservazione, un piazzale sotto un Santuario medioevale, si legge la ferita e si respira il dramma di una comunità divisa a metà, i quartieri che un tempo il “Morandi” collegava come circonvallazione. Ora è una città assediata dove si fa zig zag tra le strade superando posti di blocco e ingorghi senza fine. Qualche palazzo più in là del Polcevera, c’è il Teatro Akropolis, ricavato dentro lo stabile di una scuola che negli ultimi anni ha conosciuto anche da queste parti, siamo a Sestri, il calo di alunni. E’ qui che è andato in scena in gran parte il film di una rassegna dal segno utopistico e necessario concentrato in un palinsesto a più voci e differenti emozioni. Comune terreno di scambio l’energia primaria dell’uomo nelle espressioni d’arte, dal teatro alla danza. Sondare forme anche apparentemente lontane tra loro fino a individuare il comune terreno di appartenenza è il centro della ricerca filosofica e teatrale di Akropolis. Con i libri e gli spettacoli.
A distanza di oltre trentamila anni, è affine nello spirito, e forse condivide la medesima ispirazione che guidò la mano degli ignoti pittori autori di quell’incredibile e visionario universo affrescato, come una Capella Sistina del Paleolitico Superiore, nelle caverne di Chauvet (scoperte in Francia nel 1994 a Vallon Pont D’Arc nell’Ardeche). Due anni fa un gruppo di writers lo ha riprodotto con minuzia nel grande muro prospiciente l’ingresso al teatro. Un groviglio fantastico di animali: rinoceronti, mammuth, gufi, bisonti, leoni, cervi, iene e cavalli. Ritratti in solitario o in branco. A guardarli, anche su un muro qualunque di una città, emanano raro magnetismo. In quelle copie di copie c’è un’aura magica che sfiora il mito.Le mani sapienti dei writers hanno ripetuto le linee oscure e misteriose che rimandano a rituali persi nella notte dei tempi, dove hanno avuto inizio le nostre storie più profonde. Figure che replicano il maschile e il femminile, forme falliche e vagine, simboli di nascita, morte e rinascita, fatte di donne dai fianchi opulenti, esseri ibridi e leoni.
Uno sguardo gettato su quelle figure inconsciamente prepara alla visione di un antico mistero messo in scena dai padroni di casa in “Pragma, studio sul mito di Demetra”, regia di Tafuri e Beronio. Uno spettacolo essenziale, di solido impatto emotivo, un teatro che insegue la danza e conduce lo spettatore sulle soglie di un mito. Un viaggio simile a quelli che mille e più anni fa avvenivano ad Eleusi nell’antica Grecia, dove per i “Mysteria” approdavano dai posti più lontani, uomini e donne, schiavi e liberi per partecipare a riti rimasti in gran parte segreti _ di origine pre-ellenica _ nei quali si celebrava il passaggio dalla vita alla morte, ma soprattutto chi vi prendeva parte, secondo i racconti e le testimonianze anche illustri del tempo, riusciva a liberarsi dalla paura di varcare il regno degli Inferi. Descritti in parte anche nelle “Rane” di Aristofane, gli iniziati prendono parte alle feste per Demetra e la figlia Persefone (Cerere e Proserpina dei Romani) della quale si ripercorrono i passi d’ingresso nell’oscurità e quelli di uscita verso la luce. Cerimonie popolari ma segrete, con diversi livelli di iniziazione in cui veniva allestita la rappresentazione del Mito stesso. Quello della fanciulla Kore conquistata dal dio Ade alla madre Demetra, disperata per la perdita della figlia, che dopo lungo divagare potrà riabbracciare, ma solo per un certo periodo all’anno. Grazie a Baubò, figura ibrida con il corpo da donna che muovendo al sorriso Demetra (sollevando la sottana e mostrando il basso ventre) faciliterà la ricongiunzione delle due donne. L’atto finale è l’avvento di Dioniso che coincide con il miracolo della vita e della rinascita. Atto che certifica la nascita stessa del teatro. Dentro i Miti c’è la storia del mondo, i nostri affanni e le cure. A leggerli bene si coglie l’essenza stessa del vivere. Potrebbe apparire passione archeologica invece è quanto di più attuale ci sia, perchè è in relazione con la nostra stessa contemporaneità. Seguendo il motto “Conosci te stesso”, inciso nel tempio di Apollo a Delfi, il Mito, come quello antichissimo di Demetra, è una scatola del tempo da aprire e studiare. A teatro questo vuol dire tornare alle fonti stesse dell’energia, artaudianamente capaci di immergersi nel profondo e restituire una parte del tutto. Akropolis agisce tagliando obliquamente la scena dove, emergendo da un buio totale, le luci ritagliano uno spazio minimo ed essenziale. Gli attori si muovono in tempi stretti, ripercorrendo le tracce di un ritorno al futuro.
E’ un “act sans paroles” intimo e ad alta tensione. Kore, una Aurora Persico acidamente invasata mostra i segni della ribellione, tentando di espellere con morsi e sputi il veleno tossico instillato da Ade, un calibratissimo e preciso Luca Donatiello, Alessandro Romi è invece una sconsolata e austera Demetra, madre ferita nel cuore, ma anche fiera combattente. In questo trio, saldamente tenuto assieme con i fili del dramma si inserisce come un fool, un servo di scena dai segni che annunciano già Dioniso: Domenico Carnovale, alias Baubò, trasforma una pizzica in una danza derviscia magnetica e vertiginosa. Atto catartico che apre e ridefinisce il tragico: le porte dell’Ade si aprono e la fanciulla diventata donna ritrova la madre. Tornano le stagioni e il tempo dei raccolti, E nel suo fluire di nascita e rinascita la vita compie i cicli rivelando l’essenza della natura. Conoscere le fasi diverse del Mito significa conoscere se stessi, prepararsi a vivere secondo l’alternarsi delle stagioni liberandosi, come insegnavano i misteri eleusini, dalla paura della morte. Conoscere è ricordare. E’ riprendersi ritrovando un ricordo dimenticato.
Così annota Platone nelle pagine del “Fedro”: “Un uomo che si serva correttamente di tali ricordi, iniziato ai sempre più perfetti misteri, lui solo diventa veramente perfetto. Allontanandosi poi dai comuni oggetti delle preoccupazioni umane e divenendo tutto volto alle cose divine, viene giudicato dai più come se fosse un folle, ma essi non si accorgono che ha il dio dentro di sé”. Il Teatro Akropolis è approdato al mito di Demetra sull’onda dello spettacolo precedente “La morte di Zarathustra”, gli studi sulle opere e il pensiero di Nietzsche e Giorgio Colli. Una ricognizione puntuale e metodica che ha prodotto pagine scritte, riflessioni e azioni teatrali realizzate con rigore.
E rigore, energia e sapienza teatrale si rintracciano anche in “Verbo presente” potente atto coreografico unico di Paola Bianchi, artista danzatrice e coreografa indipendente, tra i migliori talenti della danza contemporanea italiana. Autrice di un lavoro che ha pochi uguali, sembra avere in comune con Akropolis una affine concezione sacrale del rappresentare, fatta di generosità e precisione scenica quanto una rutilante capacità di improvvisare su un canovaccio nobile d’attore: superando la quarta parete, esce dal guscio protettivo di schermi e veli che mettono fuori fuoco una straripante energia. Ad attivare il corpo di Paola Bianchi, che attraversa come una scheggia il palcoscenico è la musica, composta ed eseguita dal vivo da Fabrizio Modenese Palumbo, musicista di frizzante creatività, al violino elettrificato e ai live electronics (il tutto coadiuvato scenograficamente dalle preziose architetture del light designer Paolo Pollo Rodighiero). Quello che va in scena è un contatto forte e rabbioso, addolorato ed erotico tra suono e corpo che danza senza risparmio: prende alla gola e costringe alla visione. Impossibile staccare o vagare con lo sguardo, che, al contrario, resta incollato alle evoluzioni “au bout du souffle” di questa formidabile performer.
E’ danza, è teatro, è movimento puro. Un corpo che vola ribelle sulle brutture del mondo, ridefinendo spazi ed emozioni mentre la luce progressivamente disegna inediti territori da esplorare sul corpo e nel buio. E ci sono attimi in cui Paola Bianchi mostra una rara abilità nel mettere in fila piccole e progressive tensioni amplificandole in gestualità uniche, suggerendo una danza del profondo che evoca conflitti tumultuosi e primordiali quanto imprevedibili e imprevisti distacchi zen.
Agli antipodi e con un vocabolario decisamente diverso è la danza del giovane italo israeliano Andrea Costanzo Martini, esibitosi la stessa sera di Paola Bianchi in “What Happened in Torino” in cui al contrario ci si nutre di una solare ironia, dove tra l’altra si mette alla berlina il mondo schizzato e consumistico delle aste tivù (si ascolta anche un frammento audio di una televendita condotta da Vanna Marchi negli anni Novanta) ma senza rinunciare alla ricerca del movimento e di originali figure coreografiche. Danzatore eccellente, nonché dotato di una buona dose di simpatia, Andrea Costanzo Martini si muove con naturalezza estrema, spesso disarticolando il corpo fino a trovare insolite figure, per tornare prontamente ai passi danzati alla perfezione. E’ quasi un confronto stretto tra classico e sperimentazione, ma fatto in scioltezza e senza prendersi troppo sul serio. Ne viene fuori una pièce ad alta godibilità dove il danzatore nel riflettere sull’essere in scena mostra una interessante capacità di costruzione, con immagini da ombre cinesi proiettate sulle quinte che rimbalzano poi dal vivo con effetto cinematografico, alternando movimenti apparentemente scomposti a salti di esuberante energia e precise evoluzioni aeree.
Sceglie la dimensione di uno show da disco pub Licia Lanera in “Black’s Tales tour”, campionario di fiabe come non sono mai state raccontate. Non sono quelle che spuntano da pagine patinate di pubblicazioni di letteratura infantile, bensì storie da sottosuolo. Cattivissime, con tutte le sottolineature possibili di chi le ha sviscerate sino in fondo e ora le porge con rabbia in un atto unico che non lascia vie di scampo. Non c’è consolazione né mediazione, nessun compromesso nel racconto parossistico che questa formidabile attrice espone demolendo con una ruspa luoghi comuni e sentimentali. Ecco così “Cenerentola”, “La Sirenetta”, “Scarpette Rosse”, “Biancaneve”, “La regina delle nevi” cioè tutto l’armamentario classico dei fratelli Grimm e Andersen, raccontato con il brivido da questa aggressiva, e pure seducente, lady in black vestita con body in lattice nero che si fa castigamatti di generazioni cresciute con le versioni edulcorate di favole, poi rifiltrate e propinate dentro colorati cartoni d’animazione, tutto buoni sentimenti e amore. L’atmosfera è hardcore, con sana energia punk, il ritmo va a mille, complice anche l’ottimo sound design di Tommaso Qzerty Danisi e le luci acide di Martin Palma.
Licia Lanera racconta con brillante crudezza splatter di pollici macellati per poter indossare le celebri scarpette da futura principessa, specchi magici da spaccare e altro, fino a rivelare la vera natura nera di queste storie usate da generazioni di genitori per addormentare i bambini. Insomma, un delirio che conosce momenti di poesia e liricità (con le note di “No, je ne regrette rien” di Edith Piaf) e sul finale sfuma verso una realtà fatta di una quotidianeità un po’ stressata di colloqui con l’orata da settimane in frigo e il sipario sulla scritta composta sul palco da Licia Lanera che, da un’iniziale “Eternit” muta in “Eternità”. Nei titoli di coda con una “Mi ami?” dei Cccp da applausi, in versione rimasterizzata. Per la parte spettacolare “Testimonianze” ha conosciuto momenti di bella forza con uno spazio importante dedicato al butoh giapponese con i lavori di Masaki Iwana che ha presentato il suo “Vie de Ladyboy Ivan Illitch”, l’allievo prediletto di Kazuo Ohno, Imre Thormann in “Enduring Freedom” e l’italiana Alessandra Cristiani con “Clorofilla”. Una mostra fotografica a Palazzo Ducale e l’incontro “La danza Butoh. Dai maestri alle nuove generazioni di performer” hanno concluso il progetto dedicato a questa forma artistica giapponese.
Per la danza, nella prima parte del festival è stato presentato “Eoika” di Sabrina Vicari e Federica Aloisio. A seguire gli spettacoli selezionati nella vetrina “Altricorpi XL”: Cie MF, in “Chenapan”, Simone Zambelli con “Non ricordo” e Luna Cenere con “Kokoro”. Il gruppo Nanou ha mostrato “Campo. Alphabet: progetto di scrittura per una danza possibile” e infine “Safe Pièce” di Valentina Campora. Per il teatro ReSpirale ha mostrato “La fattoria degli animali” da Orwell mentre Jessica Leonello ha allestito il suo “Nuovo Eden”. Per la sezione dedicata al circo, in collaborazione con Sarabanda “Testimonianze” ha presentato gli spagnoli Eia in “Espera” e il Flic-scuola Circo di Torino in “Stracci”. E di rapporti tra scena teatrale e circo si è discusso nel convegno moderato da Laura Santini con gli studiosi Silvia Mei e il sociologo francese Jean Michel Guy. “Ivrea Cinquanta” è invece il titolo del libro edito da Akropolis dello studioso Marco De Marinis dedicato a mezzo secolo di teatro in Italia dal 1967 al 2017, presentato a Palazzo Ducale. Sigillo finale sul festival la Festa in musica con il gruppo salentino degli Alla Bua.
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