Partiti e politici
Quello che le Giorge non dicono: il fantasma dei tecnici e altre mezze verità
Non ha certo tutti i torti, Giorgia Meloni, quando dice che c’è chi lavora per sostituire il suo governo, il cui insediamento compirà un anno tra qualche settimana, con un esecutivo tecnico sostenuto da larghe quanto innaturali intese parlamentari. Quando nei giorni scorsi ha parlato dei “solito noti” che lavorano a quel progetto ha detto esplicitamente quel che, tra le pagine dei giornali e nei corridoi frequentati da lobbysti e consulenti, si diceva da qualche settimana. Peraltro, tanto poco segreto è il disegno che da ormai quasi un mese se ne parla, più o meno apertamente, sui giornali. In particolare, la Stampa di Torino ha aperto la nuova strada a questo discorso antico, con un editoriale del direttore Massimo Giannini, che il 17 settembre scorso ha prefigurato l’ipotesi che Fabio Panetta, prossimo governatore di Banca d’Italia, che mentre prepara il trasloco nella sede della banca centrale potrebbe essere chiamato a breve a un nuovo spostamento, a Palazzo Chigi. È amico di Giorgia, è di destra, e quindi nè lei sè i suoi fratelli potrebbero dire di no, anzi tutto sommato potrebbero essere soddisfatti che sia lui a fare da nocchiero, nel mare in gran tempesta delle prossime stagioni. L’ipotesi è suggestiva quanto prematura, per ora, ma continua a girare e a suscitarne altre, analoghe, e vale la pena di guardarla: non tanto per il gioco politico in sè, ma perchè consente di scomporre gli elementi della tempesta, appunto, e a capire cosa c’è di vero nei timori di Meloni per il destino politico suo e dei suoi, e cosa non si dice con chiarezza sulla situazione politico-economica del nostro paese.
Nel denunciare domo propria una voglia di governissimo, che trova sempre voce e forza nei desideri di élite sempre più lontane dal sentire e dal vivere del popolo, Giorgia Meloni denuncia anche, e a ragione, un vulnus ormai strutturale della democrazia italiana. Che questa spinta, sostanzialmente eversiva, di certe classi dirigenti esista è un dato di fatto. Nessuno discute che siano legittimi governi nati in parlamento e non rappresentativi di premesse politiche e promesse elettorali. E tuttavia, che questo non sia sano per una democrazia, che la renda strutturalmente debole, che contribuisca al senso di frustrazione di una cittadinanza peraltro responsabile di scelte elettorali mutevoli e incoscienti, è altrettanto vero. È questa la traccia profonda di un libro uscito un anno fa, che ho scritto con Giuseppe Alberto Falci, e che mi permetto di segnalare perchè il decennio che abbiamo alle spalle sembra aprirsi a nuovi entusiasmanti capitoli. Ci sono però diverse cose che Giorgia non dice, quando parla dei “soliti noti”, ed è su queste in particolare che vale la pena di riflettere.
La prima, quasi scontata, è che non spiega chi sono i soliti noti. Probabilmente il riferimento diretto è al Pd, sempre pronto a fornire supporto a qualunque esperimento tecnico, o tecnico-politico, a qualunque formula che riporti la sua classe dirigente al governo purchessia, anche dopo elezioni non vinte. Che questa spinta nel Partito Democratico esista, ed esista anche nel corpaccione di una classe dirigente che ha sostenuto Elly Schlein fingendo che l’avrebbe seguita sulla linea della coerenza da lei convintamente proclamata – “mai più al governo con la destra” – è sicuramente vero. Che però il desiderio di stabilità e poltrone del Pd sia la vera causa della fragilità del suo governo è un’assurdità, ed è così evidente che lo sa sicuramente anche Giorgia Meloni. Un pezzo importante di Pd spera in una sua caduta e in un perdurare della legislatura, seppure non è chiaro lungo quali rotte o formule, per tornare a governare. Quello stesso gruppo dirigente sarebbe sicuramente pronto a sconfessare Schlein e la sua linea, come fece a suo tempo con Zingaretti, che nell’estate del Papeete aveva promesso a Salvini che non avrebbe mai fatto un governo coi 5 Stelle, ma poi quel governo nacque, come volevano Renzi e Franceschini. Ma il governismo del/col Pd è una conseguenza, non la causa di quel che lamenta Meloni. È la stampella usurata ma tutto sommato sicura che cerca lo zoppo, non la causa del claudicare.
Questa tendenza centrifuga, che puntuale si ripresenta ogni volta che governano loro, ha radici storiche e ragioni contingenti, e vale la pena di ripassarle entrambe. Le prime vengono da lontano, e riguardano la pesantezza del nostro debito pubblico, la bassa produttività del nostro sistema, la fatica di aggiornare il modello si sviluppo del nostro paese, la crisi demografica sempre più chiara, in un paese sempre più vecchio. Questioni da nulla, come si vede bene, che non nascono oggi e che continuano a peggiorare e incancrenirsi, ormai da decenni. I colpevoli sono tanti, e la politica che preferisce mancette e bonus in vista delle prossime elezioni, invece di decisioni strutturali in vista dei prossimi decenni, non è certo una prerogativa di chi governa oggi, e Giorgia Meloni può certo dire che lei non c’era, e se c’era stava all’opposizione. Ma c’è invece tutta un’altra questione, che la riguarda direttamente e riguarda il suo governo, la sua vicenda politica in senso stretto. È una leader con un passato marcatamente populista, anche grazie ad esso è diventata la capa del primo partito italiano e della coalizione di governo. Anche se da quando sta a Palazzo Chigi si comporta da bravissima e affidabilissima leader conservatrice, quel passato resta nella testa di molti, soprattutto degli investitori e dei leader stranieri. Che al primo stormir di fronda, se ne ricordano ancora meglio. È inevitabile, e non è colpa di nessuno.
Poi ci sono le contingenze. Le previsioni di crescita sono state ridotte sensibilmente. Nella Nota di aggiornamento di Economia e Finanza – la NADEF di cui si parla molto in questi giorni – si continua a far finta che il PIL del nostro paese crescerà dell1,2%, ma non è così. Quindi, siccome le entrate saranno meno, servono tagli, che sono per definizione il contrario di quel che promettono i populisti. Servono scelte complicate, mentre la lingua preferita è quella delle cose facili – per quanto impossibili. È, per dirla tutta, l’unica lingua che conosce il più importantre alleato di Giorgia Meloni, cioè Matteo Salvini. Che tormenterà l’esecutivo – c’è da scommetterlo – da qui alle Europee, per avere un bonus in più, una regalia in più, un ponte sullo stretto in più. Per stare tuti i giorni in prima fila nei tg e sui social network, per lucrare sulla cinghia tirata da Meloni e Giorgetti – in teoria un suo compagnia di partito – nella parte di quello che fa di tutto per allentarla, per aiutare “gli italiani”. Inseguire lui è insieme necessario e insensato, per Giorgia, e questo è un bell’enigma da sciogliere. Meno necessario, anzi, è inseguire i vari Vannacci del regno, eppure a Giorgia sembra difficile non farlo, quasi un richiamo della foresta che però finisce per spingerla ai margini della credibilità istituzionale che con tanta fatica e buona volontà ha lavorato per ricostruire.
In queste settimane insomma stiamo vedendo, per fortuna o purtroppo, che di Giorgia Meloni non ce n’è una sola. Lo sapevamo, ma adesso che il piatto piange e le decisioni da prendere sono toste, si vede meglio. Entrambe le Giorge dicono qualcosa di vero, e altre verità importanti le omettono. Parlare chiaro sulle poche risorse, accettare il rischio di qualche difficoltà elettorale alle Europee e lavorare per un futuro stabile, tuttavia, è l’unica strada che ha per consolidare la leadershiop di lungo periodo che resta il suo vero obiettivo. A meno che qualcuno non sia davvero così pazzo da tentare una spallata – difficile nella formula politica, praticamente impossibile nei numeri – per mandarla a casa, e magari correre verso il baratro di nuove elezioni a breve. Questo sì che sarebbe un regalo, anzitutto per lei. Non si può escludere che, alla mala parata, la tentazione dei “soliti noti” finisca per coincidere con la tentazione di Giorgia.
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