La salute mentale è roba da ricchi e in tempi di pandemia la “pagano” i giovani

4 Dicembre 2021

“La salute mentale è roba da ricchi” canta Marracash in “Dubbi”, uno dei pezzi contenuti nel suo nuovo album “Noi, loro, gli altri”. Ma è davvero così?

Il rapper nel 2019 ha raccontato pubblicamente di soffrire di bipolarismo e in “Dubbi” affronta anche il tema della terapia e della dipendenza dalle pillole per dormire.

In molti, recentemente, hanno lanciato l’allarme proprio sull’aumento dell’uso di ansiolitici. Il fenomeno però andrebbe avanti dal 2010, quindi con il trauma collettivo del Covid19 c’entrerebbe poco. «Dal punto di vista del Sistema Sanitario Nazionale l’esplosione dell’utilizzo dei farmaci non sembra esserci. Le basi dati sono complesse da interpretare. Ci sono lievi variazioni ma non ci sono grosse evidenze», spiega a Gli Stati Generali Giuseppe Carrà, professore di psichiatria all’Università Bicocca di Milano. 

Gli studi realizzati da numerosi scienziati in tutto il mondo nel periodo di lockdown e restrizioni descrivono però in maniera pressoché unanime il pesante impatto che la pandemia ha avuto sulla sfera psichica degli individui. Soprattutto sui giovani e sui più fragili. I governi cercano di intervenire ma il limite tra azioni concrete e propaganda sembra essere sottile.

Oggi, c’è bisogno di una società che non discrimini, che renda la vita sempre più facile a chi soffre di ansia, depressione o altri problemi di salute mentale. È il riassunto di un editoriale scritto sul quotidiano “El Pais” dal presidente del governo spagnolo, Pedro Sanchez.

Il governo spagnolo metterà in campo tra il 2021 ed il 2024 un piano d’azione per la salute mentale con una dotazione di 100 milioni di euro. “È una tabella di marcia che mira ad andare avanti con passi consolidati verso il miglioramento della salute mentale”, ha evidenziato il premier durante il suo discorso all’evento istituzionale “Salute mentale e Covid-19. Piano d’azione”. In questo piano sarà inclusa la promozione della formazione sanitaria in materia, una campagna di sensibilizzazione ed un numero telefonico H24 per fornire assistenza e supporto per i comportamenti suicidari.

Proprio “El Pais” ha dedicato di recente cinque pagine del suo giornale al tema della salute mentale, perché in Spagna si è scelto di passare dal silenzio al dibattito sociale. Occuparsi della cura della salute mentale non può più essere solo una questione di marketing in tempi di pandemia. Sanchez sembra averlo capito.

L’Italia da più di vent’anni non investe una quota adeguata del suo budget sanitario per la salute mentale. Nel 2001 le regioni si sono impegnate a destinare al “settore” almeno il 5 percento dei fondi sanitari regionali ma la media nazionale è ferma a poco più del 3,5 per cento. Francia, Germania, Regno Unito stanziano almeno il 10 per cento. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)  la salute mentale non viene mai citata, anche se il potenziamento dei servizi a livello territoriale, secondo qualcuno, potrebbe giovare anche a chi si occupa di curare patologie psichiatriche e ovviamente a chi ne soffre.

«Il Sistema Sanitario Nazionale sta provando a proporre risposte ai nuovi bisogni, ad esempio con lo sportello post Covid, però, il nostro sistema era in crisi in termini di risorse già prima della pandemia», ci spiega Giuseppe Carrà. «L’ intenzione c’è ma le risorse non sono sufficienti. Gli operatori hanno spesso contratti a tempo determinato. Inoltre, da quando è scoppiata la pandemia, molti sono in fuga, con pensionamenti anticipati, dimissioni per passare al privato e questo non è un problema che riguarda solo chi si occupa di salute mentale. Oggi siamo di meno e siamo più stanchi».

Le criticità oggettive, quindi, ci sono. Mancano i medici, in particolare gli psichiatri, i neuropsichiatri infantili ma anche gli infermieri e questa è una limitazione per sviluppare interventi e programmi. «Però, c’è anche un deficit di consapevolezza dell’importanza della salute mentale a livello pubblico che è trasversale alla popolazione generale e permea le classi dirigenti», spiega il professore, che aggiunge che «forse noi psichiatri, come categoria, non siamo stati capaci finora di avviare un cambiamento culturale sufficiente». Ma il cambiamento culturale per essere avviato ha bisogno di investimenti pubblici.

Siamo quasi a due anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria e nonostante un sistema in crisi, qualcosa abbiamo imparato. Il sistema, le istituzioni, le varie discipline hanno guardato finalmente al benessere psicologico della popolazione da un punto di vista di salute pubblica, obbligati dal trauma del Covid19.

Se da un lato «c’è stata una quota di persone che attraverso il primo lockdown e le successive riaperture e ondate ha dimostrato capacità di adattamento e si è riorganizzata anche in termini di aspettative, gestione dell’incertezza, trovando una nuova normalità», dall’altro «esistono altre due popolazioni cliniche significative in termini di salute pubblica», ci racconta il professore, basandosi sulla letteratura e non sugli aneddoti.

«Una è la fascia giovanile, tra i dodici e i venticinque-trent’anni, la quale attraverso la pandemia ha visto l’impossibilità di evolvere e attraversare alcune fisiologiche tappe evolutive». I giovani hanno dovuto rinunciare alle normali dinamiche relazionali, alla dimensione di gruppo che deriva anche dalla scuola e dall’università. Le reti sociali si sono in qualche modo frantumate. «C’è stata così un’esplosione, uno tsunami per questa fascia d’età. E oggi c’è un incremento impressionante dell’incidenza del disagio mentale grave nelle forme più svariate, come la suicidarietà negli adolescenti, la compromessa socializzazione e il rifugio nel mondo digital».

L’altra popolazione degna di considerazione e particolarmente attuale anche in termini di cronaca è invece quella che fa riferimento al mondo dei no vax e no green pass. «Questa popolazione era ben nota, in termini di evidenze scientifiche già prima della pandemia. La distribuzione nella popolazione generale di tratti di diffidenza e persecutorietà che pur non raggiungono livelli clinici tali da richiedere un trattamento c’è sempre stata. Tuttavia, questa quota fisiologica, che in altre epoche si nutriva di diffidenze verso soggetti e istituzioni, con la pandemia si è ampliata. È chiaro che in questa fetta di popolazione troviamo anche altri ambiti di pensiero, come i diritti costituzionali, le libertà civili, ma io faccio lo psichiatra e parlo di salute mentale, non ho la pretesa che la mia disciplina esaurisca la conoscenza», precisa Carrà.

La buona notizia quindi è che un pezzo di popolazione si è evoluta e adattata, ma le cattive notizie sono che i portatori di una moderata ma presente quota di diffidenza e persecutorietà hanno trovato il sistema attuale terreno fertile per sviluppare questa quota ma soprattutto che i giovani hanno mancato alcune tappe evolutive e stanno dando espressione di grave disagio.

«I reparti esplodono come numeri, facciamo il 40 percento dei ricoveri in più in psichiatria e abbiamo abbreviato la degenza media. Lo facciamo per quadri di caratteristiche e gravità prima sconosciute, in particolare sulle fasce giovanili. Sugli adolescenti, fascia 12-18, c’è una carenza di posti letti e a volte dobbiamo ricoverare nei reparti per adulti, mentre fino a cinque anni fa non li ricoveravamo perché non c’erano. Si tratta di pazienti con condotte suicidarie, espressioni di disturbi di personalità borderline che prima si vedevano intorno ai trenta, quarant’anni, condotte autolesive molto gravi che adesso vediamo nei ragazzini».

Le conseguenze dell’emergenza sanitaria purtroppo continueremo a vederle nei prossimi anni, in molti la chiamano “onda lunga della pandemia” ma intanto, finalmente «bisognerebbe supportare e finanziare i servizi di salute mentale, adattarne di esistenti alle nuove condizioni e affrontare il problema culturale», quello che fa vivere la salute mentale come un tabù ancora oggi.

Il governo britannico, per esempio, ha ormai da venti, trent’anni avviato importanti campagne di comunicazione antistigma. Ci si arriva con consapevolezza e investimenti. Il pubblico deve creare con pazienza una condizione per cui poi anche le figure pubbliche possano essere efficienti e arrivare alle persone.

Non bastano le iniziative private e ammirevoli degli influencer come Fedez e Chiara Ferragni che cercano di normalizzare le terapie.

«La salute mentale, il benessere psicologico è però anche coesione sociale, ambiente, socialità, cultura. È fatta di tante cose, letteratura, musica, arte. C’è anche questo», conclude Carrà.

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TAG: coronavirus, Covid19, Giuseppe Carrà, italia, pandemia, Psichiatria, salute mentale, sanità
CAT: salute e benessere

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