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Famiglia

I giorni dell’epidemia

di Biagio Riccio
21 Marzo 2020

Questa epidemia ci sta facendo comprendere che non esiste più la legge dell’amore e della solidarietà; non lo desideriamo, ma ci è imposto dalla cruda realtà che ci annuncia, come un contabile cinico e serafico, quanti sono i morti, come si sia diffuso capillarmente il contagio: forse domani il sole potrà scomparire per quei malati già affossati da dure patologie.
Siamo condannati alla separazione, isolamento, divisione, dobbiamo imparare a scendere a patti con il tempo, comprendere che la nostra condizione è quella dei prigionieri, che devono dimenticare il loro passato e avere la chiara consapevolezza di un futuro incerto, strappato e logorato; la nostra fantasia volerà basso, perché sentiremo solo il lamento del vento e siamo contratti a ricevere la freschezza della primavera.

«L’unico modo per sottrarsi a quella vacanza insopportabile era far ripartire i treni con l’immaginazione e riempire le ore con gli squilli ripetuti di un campanello pur ostinatamente silenzioso»

scrive Camus ne “La peste”.
Siamo come ombre erranti, senza direzione, galleggiamo in un mare, disperati di non vedere, come naufraghi, la sospirata riva, in compagnia solo di un cielo plumbeo.
Abbiamo perso la memoria e gli ultimi ricordi belli sono pallide illusioni.
Abbiamo smarrito anche l’intimità dell’amore e non riusciamo più ad immaginare come sia stato possibile vivere accanto ad una donna ed in qualsiasi momento posare la mano nel suo grembo.
Chiusi nel nostro letargo, comprendiamo il significato dell’istante che viviamo, perché ad esso con paura ci aggrappiamo. La nostra povera ed irrisoria immaginazione  agguanta un volo di rondini, la rugiada dell’alba o gli strani raggi che a volte il sole lascia nelle vie deserte.
È forte la sensazione di non riuscire a risalire da una voragine, poiché è lontana la liberazione, il ricongiungimento con la normalità della vita.
Anche la morte ha perduto la misericordia e la pietà, perché se si muore in tempi di epidemia, senza sepoltura e senza lacrime, ci resta solo una foto e non possiamo accompagnare chi ci lascia: sarà solo confuso con altre bare, forse in fosse comuni, perché così ha stabilito una grigia e sordida ordinanza prefettizia.
Il sepolcro, diceva Foscolo, rende la morte meno dura e consola il pianto, ma questo non è dato a chi muore di questi tempi.
Nell’ora della sera si sentono solo sirene di ambulanze che ci ricordano malati lontani dalle famiglie, abbandonati in ospedali a combattere con il flagello della morte o a sperare in una guarigione, a seconda della forza del proprio corpo.
Questa epidemia come la peste ci riporta alla gelosa custodia del nostro istinto di auto conservazione. Perché vogliamo preservarci, tutelarci e abbandoniamo al destino chi è colpito dal virus, per la paura ancestrale di evitare il contagio, per non combattere anche noi con la malattia ed il morbo.
È lo scandalo della pietà, di Dio che ci ha abbandonato, perché la morte del contagiato deve essere solo sua, senza che possa intaccare la vita che  resta, sia figlio,madre, fratello, sorella da chi ci separiamo. È l’egoismo del flagello, la cinica legge mors tua vita mea.
E così passeranno i giorni e capiamo miseramente di non essere indistruttibili, ma fragili, precari, indifesi.
La consapevolezza di queste ore dovrebbe farci capire che siamo tutti uguali, che è stato forse inutile accumulare ricchezze, tanta roba che altri non hanno. Che è semplice e bello vivere con poco, nella sobrietà dei miti.
Siamo tutti nella stessa barca: il dolore appiattisce, ci rende simili, non esiste il ricco od il povero, la verità è la stessa per tutti.
Chiudiamo gli occhi e tuffiamoci nel mare e nell’abisso delle acque forse sarà tutto finito.

coronavirus epidemia società
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